BOJACK HORSEMAN di Raphael Bob-Waksberg (2014) Foto di gruppo con cavallo

Ultimamente non riesco ad infilare una parola dietro l’altra, le mie corrose sinapsi stanno colando a picco, un colabrodo, uno scollegamento di ponti. Perdonerai quindi l’approssimazione lessicale e la grammatica spiccia che sventolerò in allegato a questa non-recensione. La pretesa di dire qualcosa su BoJack Horseman mi dà colpetti col gomito ruminando un dai su di' qualcosa. BoJack, un uomo chiamato cavallo. Ci sono alcune cose di lui che capisco e non solo per via della medesima tonalità epidermica. In comune abbiamo anche lo stesso approccio con l’alcol. Per dire, potrebbe capitare di incontrarsi in etiliche e solitarie passeggiate notturne o anche in un primo pomeriggio intorno alle 16 con quota 12 bicchieri di sambuca bevuti. BoJack però è una ex stella della televisione. Non deve raccogliere monetine dal sedile posteriore dell’auto per racimolare il tanto per una San Miguel da 5,4 gradi. L’equino può comprarsi tutte le birre che vuole allo stesso modo di come può acquistare un ristorante o organizzare una mega festa nella sua lussuosa villa affacciata culla collinetta ove campeggia la scritta Hollywood (con o senza D). Per BoJack l’alcol non rappresenta un grosso problema, sarà forse per la stazza da cavallo. Un animale che (come dice anche la sua disegnatrice Lisa Hanawalt*) può potenzialmente ucciderti con i suoi 1.200 chili. Per BoJack è più letale lo zucchero filato che una bottiglia di assenzio tracannata come se non ci fosse un domani. I problemi per il cavallo e i suoi amici sono ben altri. La serie tv è infatti sì divertente e pazzerella ma ridendo e scherzando manifesta anche un certo malessere esistenziale, se non depressione vera e propria.
Se Seneca (quello delle Epistulae morales) avesse accesso il pc e si fosse pippato in mutande le prime due stagioni di BoJack Horseman sarebbe stato d’accordissimo con sé medesimo laddove scriveva che il caos del mondo può dar noia ma è soprattutto il caos interiore quello più acuminato e penetrante. Il tumulto della nostra soggettività è il fragore di più ardua sopportazione, “l’anima che ci strepita dentro”. Per tutta la prima stagione il nostro cavallo cerca di migliorarsi, di mettere ordine al proprio caos, di non essere lo stronzo egoista che è sempre stato. Peculiarità, la stronzaggine, osservata al meglio, nelle sue origini con la seconda stagione. Ove si va più in profondità al carateraccio di BoJack, mostrando il peso di una infanzia non semplice, invalidata da genitori orrendi (“Ero bella prima di rimanere incinta”, gli dice la madre. “Farai meglio a diventare una persona speciale, da grande. Per compensare tutto il danno che hai fatto.”) e retta su salvifiche figure quali il mitico cavallo Secretariat. Entrambe le stagioni quindi sono un grosso tentativo di acquietare gli strepitii interni ed è qui curioso pensare al celebre mito del carro e dell'auriga raccontato da Platone, giacché i protagonisti sono proprio i cavalli da controllare.
Gli inviti di Seneca al non abbandonarsi ai piaceri del corpo e alla sciatteria dell’agio trovano in BoJack Horseman una contro risposta fatta di alcol, droghe, abitazioni enormi, spese ingiustificate, atti schizoidi e viaggi mentali che travalicano lo spazio-tempo. Insomma, tutti i personaggi sono incasinati. Personaggi che provano ad aggiustare e ad aggiustarsi ma poi quando sono al bivio decisivo riescono sistematicamente a mandar tutto all’aria. Anche i protagonisti più ingenui (al limite dell’innocenza) come Todd (Aaron Paul) e il labrador Mr. Peanutbutter non sono da meno per ciò che riguarda la magica sfera della problematicità. Si ha come l’impressione che Todd e Mr. Peanutbutter abbiano orbene i loro momenti oscuri ma che rispondano – forse per autodifesa – voltando lo sguardo da un’altra parte, astenendosi dall'affrontare la questione. Anche quando è evidente che vada affrontata. Dunque, la gente ha dei problemi in questa serie tv di Raphael Bob-Waksberg, che li nasconda o meno. Tanti problemi ove ci si può ritrovare. Ad esempio molte delle riflessioni di Diane, la compagna di Mr. Peanutbutter (che pare in parentela stretta con la Daria di fine anni Novanta), sollevano questioni nelle quali qualsiasi trenta-quarantenne potrebbe ritrovarsi. “Non sono felice, di ogni cosa. Mi sveglio al mattino e sento di non avere un obiettivo… Ed ho 35 anni...” dice Diane. O ancora, un "Vorrei fare la cacca in un secchio". Frasi che molti possono fare proprie, parole che accendono una certa empatia nonostante le stiamo udendo da una donna che parla ad un cane. Questo cortocircuito, colorato di momenti di pura depressione abbinati ad animali che fanno cose buffe non impianta un limite all'empatia ma anzi conduce a forme accentuate di problematiche umane.
Queste verità, discusse in un contesto irrazionale, generano un assenso bizzarro nello spettatore. Parafrasando Freud (da Il poeta e la fantasia), il mondo schizoide di BoJack Horseman – ed il “fantastico” in generale – ha la capacità di sciogliere dei nodi, allentare tensioni. Vedere il nostro mondo riscritto in forma antropomorfa ed esasperata ci mette cioè nella condizione di assaporare “le nostre fantasie senza alcun rimprovero e senza vergogna”. Come scrive Jean Starobinski ne Le ragioni del testo: “La maniera migliore di rendere piena giustizia all’irrazionale, è di andargli incontro con tutta la nostra ragione”. La riuscita di BoJack Horseman è qui, in questo modo didattico di raccontare le paranoie di ciascuno. Ove per didattico si intende un raccontare ciò che siamo utilizzando il mezzo della finzione, l’irrazionale andante. L’utilizzo di un palco dove ci sono tizi con le maschere divertenti che ci interpretano, ma sono anche maschere che hanno più volto di noi. Come detto, i personaggi umani o animali in BoJack Horseman vivono un io in conflitto. Tormentato. Un tema centrale delle prime due stagioni potrebbe allora essere questo: la ricerca. Una ricerca che chiama un migliorarsi. BoJack tenta di essere meno egoista e stronzo. Diane cerca di concludere qualcosa in positivo prima di essere troppo vecchia per farlo. Mr. Peanutbutter e Todd provano ad accrescere le proprie potenzialità e la propria inventiva per poi goderne i meriti (anche quando in palio c’è una penna). In tutto questo la persona più stabile sembra essere Princess Carolyn. Lei è l’unica a prendere in mano le redini e a rimettersi nella giusta strada quando la situazione lo richiede. Sì, anche lei ha i suoi piccoli tormenti ma almeno ci prova, da buon gatto, a cadere in piedi, a rimettersi in sesto tirando fuori le unghie.
Tante creature complicate quindi in BoJack Horseman. Ci voleva questa serie per smentire Hegel; lo Hegel che ne l’ Enciclopedia delle scienze filosofiche riconosce una soggettività all’animale e gli riconosce anche una voce ma gli nega una coscienza di sé. L’animale non riflette su sé stesso, scrive in modo convinto Hegel. Col cazzo! risponde BoJack. Un BoJack Horseman che ha la voce di  Will Arnett (lo puoi trovare nuovamente alcolista nella serie Flaked). Oltre a lui ci si può imbattere in Stanley Tucci, Naomi Watts, Olivia Wilde, Anjelica Huston, Liev Schreiber, Patton Oswalt, nonché i premi Oscar J. K. Simmons e Alan Arkin. Che dire? BoJack Horseman è una divertente e triste serie tv condita con amabile cinico umorismo, sensi di colpa, disagio esistenziale, crisi di coppia, traumi infantili, misantropia spinta, quotidiane inquietudini e titoli di testa e titoli di coda molto fichi. Un sacco di belle cose condensate in venti minuti per puntata. Da dire anche che ha i suoi difetti, qualche incoerenza nei personaggi (Mr. Peanutbutter cambia nel corso degli episodi diventando via via più simpatico), figure e situazioni che vengono congedate con fretta eccessiva ma or bene nulla di questo va ad intaccare la struttura nel complesso. Una struttura assai più salda di questo mio scritto così scomposto. L’ho detto all'inizio che la mia mente sta volando via. Ma non importa. Più pregnante sarebbe avere un opinione di Uexküll, il biologo che si era concentrato sulla zecca ed il suo ambiente. In BoJack Horseman avrebbe trovato creature in totale antitesi con la sua zecca che vive e basta. Una trascendenza e una esperienza dei dintorni dove c’è spazio per la noia e la disperazione e dove c’è anche l’occasione per rimettersi in sesto a piccoli passi, come lucidamente ci insegna l’ultima sequenza della seconda stagione.



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