WESTWORLD di Jonathan Nolan e Lisa Joy (2016) Paranoid android

Ciao, come va? Ieri ti ho pensato. Ti immaginavo correre felice in un immenso bucolico prato. Distante dalla afflizione e dalla lascivia. La luce del sole creava un effetto magico attorno al tuo volto già raggiante, era come veder baluginare tante piccolissime stelle. Era il perfetto computare la serenità di una vita giocosa con la meraviglia della natura. Saltellavi e gruppi di farfalle ti ballavano attorno, ti lasciavi involvere da un totale respiro dionisiaco. L’aponia si accordava sui tuoi battiti, la limpidezza si foggiava nel tuo sguardo. Poi d’un tratto ti arrestavi e zampettavi con una certa malizia dietro ad un albero. E lì, con ricercata flemma, defecavi. Concedendoti anche il capriccio di un sonoro peto ad aprire le feste. Ho pensato che in fondo fosse anche quello il western. Magari la fagiolata della sera precedente. Poi ho anche ripensato ad un film epocale, Assalto al treno (The Great Train Robbery), classe 1903, diretto da Edwin S. Porter. Un super classico. Un film reso immortale non solo dalle trovate squisitamente cinematografiche e pionieristiche ma anche dalla celebre scena che vede il cowboy sparare verso la macchina da presa. Le sue peculiarità hanno portato The Great Train Robbery ad esser considerato il primo – completo - film western della storia del cinema. C’è poi chi dice che non è il primo film western in generale ma allora perché nessuno si ricorda il titolo di questo primo film western prima del film di Porter? Primati a parte, eccoci a distanza di parecchi anni ancora qui a parlare di un genere che in fin dei conti non sembra morire mai, un genere che riesce a farsi carico degli intrecci più disparati (di-sparati). Westworld fa parte di questa curiosa fusione. Come noto alla base c’è Michael Crichton (autore, nel 1975, di un romanzo intitolato La grande rapina al treno e quindi qui si chiude il cerchio e anche la parentesi).
Guarda, ti dico una cosa. Da giuovine Crichton era uno di quegli scrittori che mi piaceva leggere. Era avvincente. Per dire, ricordo con affetto e stima la lettura di Jurassic Park, costretto a letto dall’influenza. Cioè, io ero costretto a letto con l’influenza e non Jurassic Park, inoltre se con questi giochi di parole credo di fare il simpaticone mi sbaglio di grosso. Sono e rimarrò per sempre un povero stronzo. Mentre Crichton era davvero bravo nel rendere le vicende scientifiche fiche. Il fatto che lui fosse un medico-chirurgo aiutava nel dare spessore all’improbabile. Come se non bastasse se la sapeva cavare oltre che col bisturi anche con lo strumento cinematografico. Coma profondo (tra l’altro film d’esordio per Ed Harris, attore presente con tutte le sue rughe anche in codesto Westworld), era davvero inquietante. Altro film, Runaway, questo era per me un film che inspiegabilmente da bambino mi piaceva un sacco. E poi c’era anche Il mondo dei robot. Insomma, le trovate di Crichton son sempre state assai illuminanti. Ma Westworld 2016? Sì, è vero. Mi ero messo seduto con l’idea di scrivere un piccolo commento e nulla di più. Be’, ti devo dire che io mi sono visto i primi cinque episodi uno dietro l’altro. Alla fine di un episodio pensavo “No, io devo sapere cosa succederà ora”. Questo quindi significa che almeno per me la serie è davvero ben fatta. Dirai “Ma sai quanto me ne frega della tua opinione!”, come darti torto. Comunque, ribadisco, per me è una serie con le cosucce a posto. Diciamo che il budget di 100 milioni di dollari ha aiutato, ma soprattutto sono riusciti a sfruttarlo alla grande. Dico, balza agli occhi che le cose son tutte allestite con cura certosina. Ma aldilà dell’aspetto scenografico o amabilmente cinematografico (anche se televisivo) Westworld funziona dal punto di vista introspettivo. Addirittura? Sì. Episodio dopo episodio riesce a costruire una certa bizzarra inquietudine. Se dovessi or ora scrivere una delle mie solite insulse non-recensioni ti avrei già tirato fuori dal cappello da cowboy un autore atipico come Walter Benjamin. C’è del Benjamin in questo west. Nel senso che il mondo di Westworld non è così estraneo alla Parigi raccontata da Benjamin: il luogo delle meraviglie, delle vetrine, della merce, della vita ricostruita, il luogo della ciclicità e della meccanizzazione così biasimata da quel mister allegria di Kafka.
L’esposizione della merce vive in un tempo sempre uguale a sé stesso, non può avanzare ma deve solo ripetere, martellare. Benjamin passeggiando per i passages, le gallerie commerciali della Parigi del XIX secolo, ne rintraccia le inquietudini. “Il nostro tragitto attraverso i passages è anch’esso in fondo un cammino spettrale”. Un cammino che si fa circolare, un loop alienante. Ecco, loop potrebbe essere la parola fondante di Westworld giacché ogni giorno gli abitanti della piccola città fanno l’esperienza del già vissuto. E in qualche modo possono permetterselo giacché a Westworld gli abitanti oltre essere abitanti sono anche merce, e sono merce in quanto sono cyborg. Riproduzioni perfette di umani che per i veri umani sono oggetto di consumo. La vera umanità può consumare sulla finta umanità pulsioni sessuali ma anche pulsioni omicide. Il feticismo della merce discusso un giorno a colazione da Marx, trova in Westworld ampio materiale. L’uomo ha a disposizione il cyborg, l’altro uomo, quello da lui creato per usarlo all’infinito, o almeno fino al decadimento della merce cibernetica. L’aspetto inquieto di Westworld è che noi ci ritroviamo a simpatizzare più per i finti umani, questo perché solo in loro pare sopravvivere l’umanità o almeno un certo calore. C’è più umano nel non umano e c’è più calcolo nell’umano. I finti umani sono costretti a vivere – come direbbe magari Benjamin masticando un pomodoro – nell’età dell’inferno. Vale a dire nel tempo rituale della reiterazione. Il tempo di un transito senza sosta nel “Regno nebuloso, impenetrabile e muto”. L’inferno nei giorni ripetuti del Westworld è il luogo senza pietà e quindi senza fine perché qui il tempo, come la moda, è il tempo-merce. Ecco, Westworld è questo ma è anche altro. Diciamo che è un labirinto intricato ed affascinante. Un labirinto dove si intrecciano un buon numero di personaggi, personaggi che si incontrano e si rincontrano senza andar però a confondere lo spettatore. Anzi, il bello è anche questo, l’entrare piano piano in questo mondo che si risveglia nel ciclo costante per arrivare, episodio dopo episodio, a maturare una certa angoscia nonché un bisogno di uscita dal loop. Per ora sono solo al quinto episodio e, da simpatico spettatore, spero vivamente che tutto ciò che si sta costruendo con cotale minuzia, non scivoli proprio sul più bello. Per capirlo devo salire sul treno del futuro. 
Ciao, come te la passi? Come è il futuro da quelle parti? La prima stagione di Westworld si è conclusa e quindi mi è venuta la non molto originale idea di parlartene. Se non hai visto tutta la serie non leggere quanto sto per scrivere. Ci saranno spoiler. Or bene a differenza del solito pensavo questa volta di essere più noioso, più ammorbante. Più respingente. Non avendo un vasto pubblico a parte te (che vai benissimo) mi sembra davvero limitante cercare di essere conciso se non addirittura chiaro. È come preoccuparmi di lasciare fette di pizza pur sapendo che in tavola non verranno altre persone. Perché togliermi qualcosa per qualcuno che non c’è? Perché lasciare freddar la pizza? Quindi scriverò semplicemente quello che mi balza per la testa, senza distrarmi. So che puoi ascoltarmi perché so, in qualche modo, che dai per scontato che ormai sto letteralmente uscendo di senno. Or dunque inizia a prenderti qualche fetta di pizza e a pensare ad una parola latina: urbs. La parola urbs deriva da vurbs, ossia far crescere. Far crescere con il lavoro, che detta così potrebbe apparire come l’atto della masturbazione. Il lavorio di mano fa crescere il gingillo. Ma non è questo il caso. Non è così perché vurbs rimanda anche al verbo urvare. Tracciare il solco. Nello specifico tracciare il solco di Roma. Non a caso, urbs è una contrazione di urbum. Cosa traccia il solco? Il pene? No, l’aratro, urbum è infatti l’aratro. Chi è che traccia il solco di Roma? Il leggendario Romolo. E il povero Remo? Non c’è spazio per Remo, giacché può esserci solo un fondatore. Il governo deve essere unico per essere stabile. L’alternativa è, oltre all’eliminazione dell’altro papabile fondatore, la scissione. Vale a dire, un re resta dentro le mura della città e l’altro rimane fuori. Si è quindi tracciato il solco, è nata la città. La urbs chiusa nelle sue mura (talvolta invisibili) è al riparo dalla civilizzazione, vive nella propria temporalità. Vive protetta dai Dioscuri, i protettori delle porte. Dalle porte passano i mezzi di sostentamento ma anche i cadaveri. Nella soglia passa, è di passaggio, la spettralità. La spettralità di chi non è morto ma non è neanche vivo.
Per Walter Benjamin - filosofo tedesco - le porte sono nascoste, separano in modo invisibile la città (la urbs) dalla cittadinanza (la civitas) e a Parigi in particolare, il confine assume una ambiguità, una “ambivalenza” ulteriore, grazie ai passages. I passages sono le gallerie, quelle che puoi trovare nei luoghi prettamente commerciali della città. Luoghi di passaggio coperti e quindi, per questo, sono sia casa che strada. Per Benjamin i passages parigini sono soprattutto la traccia della urbs. La città solcata, la città originaria. I passages rimandano ad una esistenza dimentica, sono il revenant. E il revenant è colui che in qualche modo ritorna. Colui che ritorna di notte, quando la coscienza non è più in grado di vedere le porte. Le porte cedono e si aprono le pareti, i passages divengono i corridoi spettrali, il luogo del “cammino spettrale”, altrimenti detto Gespensterweg. Questa spettralità sottolineata da Benjamin partecipa anche di un altro elemento: il segreto. La spettralità va tenuta nascosta, questo perché lo svelamento del suo segreto può rivelarsi ancora più spaventoso. Nel sogno lo spettro è meno spaventoso rispetto allo scoprirlo anche nella realtà. In tal senso è meglio se lo spettro rimane nel segreto del sogno. Per Derrida il revenant è il “qualcun altro” che ci guarda. Lo spettro che ci guarda ma che noi non possiamo vedere. Non solo, il revenant è anche colui che ci parla, che “detta legge”. Per capire, citiamo un revenant famoso: lo spettro del padre di Amleto. “Io sono lo spettro di tuo padre”, dice il revenant. Sarà vero? Non si può che credergli, credere alla sua legge. Credere allo spettro del fondatore del regno, del fondatore della urbs. Credere all’assenza di qualcuno. Seguendo sempre l’Amleto di Shakespeare: the time is out of joint. Il tempo è fuor di sesto. Il tempo è fuori dall’ordine attuale, fuori dal corso naturale di questi eventi. Il tempo di Amleto è quello indefinito del lutto per il padre. L’indefinito è il segreto, il segreto di una origine. Anche Romolo (il fondatore della urbs) morì in segreto, svanì durante una tempesta. Lo straniero (chi fonda non può che essere straniero, altrimenti cosa fonderebbe?) svanisce per tornare straniero. Qualcun altro sostiene invece che Romolo sia stato letteralmente fatto a pezzi dai senatori (i patres) ma resta il lato peculiare: il fondatore della urbs deve morire. L’ospite (l’host) in quanto ospite è ostile, e deve morire.
L’ospite. In latino hospes ha un doppio significato: indica sia l’ospite che il nemico. Non solo, la parola hospes cela in sé un significato ancora più emblematico: il signore dell’ospite. Chi è il signore dell’ospite? Be’ se tu mi fai entrare in casa, e tu sei il proprietario della casa ed io sono l’ospite, allora il “signore dell’ospite” è semplicemente il “padrone di casa”. Un altro giro di giostra semantico ci offre un’ulteriore significato di hospes. In tedesco ospite si dice Gast. Quale è l’etimologia di Gast? Indovina un po’, la sua radice è ghosti. Da qui deriva Gespenst. A quale parola ci porta tutto ciò? Sì, hai indovinato. La parola è ancora una volta quella: spettro. Ospite, ostile, fondatore, straniero. Lo straniero arriva, traccia il solco, fonda la urbs e poi scompare in un non luogo e diviene un fantasma. Il padre. Lo spettro che non vedi ma che ti parla. Lo straniero assoluto che possiede il segreto della fondazione. Un segreto che deve rimaner tale, sia per salvaguardare dall’inquietudine della verità dello spettro nel reale, sia per continuare a tenere lo spettro distante dalla sua stessa fondazione. Per evitare il pericolo del rimpatrio, come scrive Derrida in Dell’ospitalità. Salvare la città equivale a tenere lontano il fondatore, “prigioniero del suo luogo e del suo potere”. Salvare la città è anche il ripetere il suo vissuto, il ripetere salva la città dalla unicità della sua origine. Più ripeti più l’origine si nasconde tra gli strati e le tracce della ripetizione. Il loop salva l’ospite e il segreto spettrale della fondazione. Nella ripetizione l’origine si crea ogni volta e “acquisisce un elemento materno”*, il femminile diviene l’emancipazione dal mito. La ripetizione annulla il mito. Tante origini che “ammiccano” al tempo e allo spazio, tante origini nel tempo fuor di sesto. Per Benjamin la spettralità vive in questa “legge della ripetizione”. Lo spettro ritorna. L’esistenza, nel loop, termina senza un compimento, questo perché la fondazione è unica e non ripetibile.
La ripetizione avvolge anche i passages (le gallerie commerciali) di Parigi argomentati da Benjamin. Il passage è una città, è “un mondo in miniatura”, come appunto scrive lo stesso Benjamin in I passages di Parigi. Il passage è un “luogo di sogno, di svago e di perdizione”**. Si può incontrare chiunque nel passage. Dal flâneur al mendicante, alla prostituta. Figura questa assai particolare agli occhi di Benjamin, la prostituta è infatti l’antico e il moderno assieme. È la “figura dialettica per eccellenza”, all’interno dell’immagine dialettica dei passages è sia il soggetto che il regista. Volgarmente parlando, è la merce. Un corpo che seduce, che attira, che regola. Come detto, il passage è esso stesso una immagine dialettica. È sia strada che casa. Condivisione tra topografia metropolitana e merce, merce-feticcio che si auto-presenta. Se quindi il passage è una immagine dialettica, ciò comporta l’idea di un risveglio dall’immagine. Un risveglio dallo stato onirico, un risveglio dall’illusione, per uscire dalla gabbia dell’eterno ritorno. La fuoriuscita per la coscienza dal loop. La fuoriuscita dall’abbaglio causato dalla fantasmagoria. Benjamin contempla la fuga da questa “cesura del movimento del pensiero” grazie ad un punto di incontro: l’incontro tra ciò che è stato e l’attuale. Una costellazione critica che irrompe nel continuum. Unione fulminea tra il passato e l’adesso. L’apparire di questa costellazione è il risveglio della coscienza. Lì, in quell’attimo immobile e dialettico. Ecco allora che quella merce (il feticcio, lo strumento) è immagine che può destarsi, e si desta laddove incombe il pericolo di mercificazione senza riscatto. In che modo si depotenzia il feticismo moderno? Con la dialettica dei passages e con la consequenziale rimozione dell’apparenza del tempo-merce. Per smascherare questa natura del moderno, il passage deve però mostrare “il suo lato terribilmente negativo” **. Un lato “sinistro e terribile” che per Benjamin è ben descritto dallo scrittore Karl Kraus ne Detti e contraddetti. Parlando del passage berlinese Kraus scrive di un’aria come “dopo la fine del mondo” anche se le persone continuano a muoversi. La vita organica è disseccata e si mette in mostra. C’è una pianola che suona. Fuori c’è la vita ma dentro, con la pianola che ancora suona, “si fa Dio a macchina”.
L’età dell’inferno, è questo l’esito della modernità. La spettacolare novità, il non voler morire, la prigionia folle dell’eterno ritorno, la reiterata agonia dell’immanenza, la negazione del vivente e l’esaltazione esasperata dell’inorganico. Una moda tragica che “accoppia il corpo vivente al mondo inorganico”, come scrive Benjamin nei Passages. Per uscire da questo “tempo infernale” ecco allora che il passage deve mostrarsi terribile, per rivelare l’inferno del moderno. Una volta mostrato il lato terribile ciò che poi si rivela del passage non è la fine del passage stesso ma la sua indistruttibilità. Sperimentando la fine, inoltrandosi nel nulla della propria prigionia, il passage è quella immagine dialettica che è arrivata a vivere la morte e la morte ha ridestato l’immagine dialettica. Dopo la morte c’è il risveglio, è questo l’accordo tra il passage e la morte. Il passage è quindi ora più che mai una “dimora del passato”. I passages sono “monumenti di un non essere più”. Mossi dal motore di una dialettica del negativo, di ciò che sono non resta più nulla se non il nome: passages. Immobili i passages attendono la propria conoscibilità e in questa latenza loro rinascono come immagini. Immagini nominali, ove il nome rappresenta una categoria della somiglianza. In quel nome il pensiero rintraccia un ricordo, una famigliarità. Proprio come quando si ha a che fare con un volto. Fine? No, ciò che manca in tutta questa vicenda è un minimo di giustizia. C’è una immagine dialettica che è rimasta un po’ in disparte. Passeggiava qua e là. Lo possiamo vedere bazzicare lì. Lo vedi? Sì, il flâneur. Guarda come si muove tra la folla. Vedi la sua faccia ed il suo corpo? Vedi come è nervoso? Be’, è perché lui odia la folla. Cerca di starsene a distanza ma certe volte non può evitarla. Ed è qui, nell’eccesso di folla, che può avvenire lo choc. Un momento, un attimo rivelatore. Il flâneur… Ma forse in questo caso sarebbe più corretto parlare della prostituta. E allora prostituta sia. La prostituta, grazie a questo piccolo momento di choc, arriva d’un tratto a fare esperienza della vita interiore (o per dirla alla Baudelaire, mettendo le labbra a culo di gallina, vie antérieure). Or bene, ecco accadere qualcosa di importante nella coscienza della prostituta. Guardando con più lucidità la folla circostante ne registra la dynamis: la “serialità della catena di montaggio”. Il loop alienante e crudele. Ed è così che la prostituta (o se vuoi, il flâneur) “con la sua ostentata pacatezza (…) protesta contro il processo produttivo”***. Il ricordo quindi è assai importante, la rammemorazione. A questo si accompagna, in colui che vive la prigionia del loop e quindi dell'incompiutezza, il sentimento del dolore. Il dolore dei vinti “acquista uno splendore che si accende nell’atto della rammemorazione”**. Con l’atto del ricordare affiora una luce, uno splendore, in cui l’idea di giustizia si rivela come un a priori dell’autentica esistenza. Il ricordare un mai-stato diviene quindi una “esigenza di giustizia”, la giustizia di un passato oppresso. Giustizia che è responsabilità morale innanzi ad un comando divino, il comando del creatore. Quella voce che – e questo non lo dice Benjamin - solo una mente bicamerale può ancora udire. Il risveglio chiama giustizia, una giustizia che affiora come una creatura dall’oscurità della foresta.
Ricordi da dove avevo iniziato a delirare? Da quando ho preso a parlare di urbs, la città fondata. Come evidenzia il giurista Carl Schmitt, fondare una città equivale ad appropriarsi di un suolo. Non c’è una mediazione giuridica, la fondazione è (seguendo qui Max Weber) una usurpazione. Ossia il fondare si rifà ad un potere illegittimo e di conseguenza all’uso della forza, alla forza che si autolegittima. Con la nascita degli Stati, questa usurpazione diverrà poi legittima, una regolarizzazione di una irregolarità. Una illegittimità legittimata dall’ordinamento giuridico. Per Walter Benjamin – che ormai è diventato un nostro amicone – la “legittimità giuridica” non è legittima, è sempre usurpazione. Anzi, la legittimità giuridica è per sua intrinseca natura usurpazione e violenza. Esiste una parola tedesca per descrivere in un sol colpo questo concetto: Gewalt, potere legittimo, forza pubblica in unione alla violenza. Violenza legittima, violenza giustificata del potere. Per Benjamin, per quanto in mano (o proprio per questo) al controllo istituzionale, la Gewalt sfocia sempre nell’eccesso di potere. Il diritto si alimenta di Gewalt. Or bene viene un po’ il dubbio se non sia il caso di ribellarsi al diritto legittimamente violento. Chi è che si ribella? Il fuorilegge, il “grande delinquente” citando il Benjamin de Per la critica della violenza. Il delinquente che si muove al di là del diritto. Il fuorilegge che - guarda un po’ - è legato alla Gewalt quanto il diritto stesso, quanto quello Stato che si è preso il “monopolio della violenza”, scrive qui Derrida. Derrida che sottolinea come la canaglia è colui che ha un rapporto peculiare con la strada, con i vicoli. Ecco quindi che ritorna il flâneur ma anche la prostituta. Come poco sopra è stato maldestramente scritto, queste figure sono quelle più portate allo choc, a quello choc che ne illumina la coscienza e che spezza la trappola del loop che alterava la memoria. Si apre qui lo spazio all’emancipazione e a quello che Benjamin chiama Destruktion. Una distruzione che non va erroneamente intesa come distruzione in senso lato ma come “costruzione”, una costruzione che lega il presente al passato ma soprattutto al futuro. La distruzione di Benjamin non crea il vuoto ove questa passa, come lui stesso scrive lo spazio vuoto è “dove era la cosa, dove era vissuta la vittima” (Il carattere distruttivo). Il senso di memoria è intrinseco. La distruzione di Walter Benjamin “non estingue la memoria, bensì le fornisce un luogo” [pag. 153]*. Chiarito ciò, il carattere distruttivo deve sgombrarsi la strada, non sempre con la forza bruta, “talora anche con la raffinatezza”.
Se hai visto Westworld questo cosa ti ricorda? Ti aiuto io: episodio 8, Trace Decay. I fuorilegge Hector e Armistice (la forza bruta) e la prostituta Maeve (la raffinatezza). Ma ampliando maggiormente lo sguardo, quanto di Walter Benjamin c’è in Westworld? Per me parecchio, altrimenti non avrei scritto codesta sbobba. Per facilitare il tutto ho colorato di rosa i temi o i “soggetti” apparsi sia in Westworld che nella simpatica filosofia di Benjamin. Guardando codesta possente serie io non potevo far a meno di rintracciare i legami. E non potevo fare a meno di rimanere ogni volta affascinato dalle modalità cinematografiche. Sì, si parla di televisione ma, ne converrai, non è certamente fuori luogo parlare di cinema. Un cinema che assume spessore nella forma estesa della serialità. Francamente non ho trovato altro modo per poter parlare di Westworld se non facendolo come ho fatto. In fondo di recensioni (ottime) immagino se ne possano trovare parecchie sparse in rete. La mia sarebbe stata solo ridondante. Sì, trovo sia ugualmente inutile ciò che qui ho scritto ma avevo ugualmente bisogno di farlo. È stato l’unico modo con il quale ho potuto dire qualcosa, qualcosa che evidenziasse la profondità delle tematiche di Westworld. I suoi ideatori (Jonathan Nolan e Lisa Joy) han intessuto un racconto suggestivo, emblematico. Un racconto capace di illustrare una questione complessa come quella della coscienza e dell’auto-coscienza. 10 episodi uno più corposo dell’altro, per arrivare a costruire una struttura in grado di sorprenderti fino all’ultimo micidiale minuto. 10 episodi che si “ripetevano”, che replicavano situazioni già viste. Portandoci inizialmente divertiti all’idea che sì ora il tizio muore ma tanto poi rinasce. Un fattore ludico che via via si faceva più insofferente. Il gioco lasciava spazio ad una inquieta riflessione sulla violenza e sulla natura umana. Cosa separa un cyborg da un essere in carne e ossa? L’anima? No, quella è una favoletta. La differenza risiede nella legittimità del potere e nella precarietà dei sentimenti. Il sentimento è memoria e conservazione. Tutto ciò Westworld l’ha narrato benissimo, alternando un acume emotivo ed estetico (vedi il momento in cui la verità si palesa a Maeve nell’episodio 6, The Adversary, con quella rivisitazione di Motion Picture Soundtrack dei Radiohead mai così azzeccati) a godibili sequenze alla Carpenter come nell’episodio conclusivo. Non che in Westworld ci siano alti e bassi schizofrenici, anzi. La serie, per me, è tutta su un livello altissimo ove, ovviamente, a vincere su ogni cosa è il viaggio in quel labirinto che è la coscienza.
Last but not least, il cast. Abbastanza “superfluo” menzionare Anthony Hopkins, sempre incredibile nel risultare agghiacciante con poco. Altrettante lodi ad Ed Harris, il suo Uomo in nero è perfetto. Notevole anche il buon Jeffrey Wright. Ma a farla da padrona non è l’eccelso comparto maschile ma quello femminile. Tutta la serie è meravigliosamente femminile; a dimostrazione un botta e risposta esemplificativo più di ogni altra cosa lo troviamo nell’episodio 7 (Trompe L’Oeil). C’è il cowboy, il maschio sempre pronto a salvare la donzella in pericolo. Un ragazzo-mucca che ad un certo punto decide che è arrivato il momento di rivelarsi, di dichiarare romanticamente il suo amore per la fanciulla indifesa: “Non mi ero mai sentito così prima d'ora, con nessuna donna. Hai sbloccato qualcosa dentro di me”. Cosa risponde lei? Lo stringerà forte forte sussurrando un “Ohh, ti amo tantissimo”? No, gli risponde molto semplicemente: “Non sono una chiave, William. Sono solo io”. Chi è la lei in questione? Be’, Evan Rachel Wood. Personaggio basilare la sua Dolores, con tutti i suoi dolori giacché le fanno di tutto nel suo andirivieni esplorativo (da flâneur). Poi, quando sembra che abbiamo ormai la figura femminile della serie ecco che ti viene piazzato quello che credo sia il personaggio più figo di tutti: Maeve Millay. Rimane un po’ nell’ombra ma solo per esplodere a metà di Westworld. Lei è davvero splendida ed ha le altrettanto splendide fattezze di Thandie Newton; bravissima nell’alternare i vari registri che la sua Maeve le impone. Fantastica, ho serialmente amato Maeve e la sua importanza. Detto ciò, un riconoscimento finale io lo darei anche ad Armistice, la fuorilegge interpretata da Ingrid Bolsø Berdal. Il suo è un personaggio minore ma che lascia il segno (letteralmente). Una che prima di spararti o prenderti a mazzate ti fa quel sorrisetto simpatico. Or dunque credo di aver scritto in modo esagerato. Probabilmente neanche tu mi leggerai a questo giro ma vabbè, è la vita. Westworld! Per me è la serie dell’anno. Profonda, intelligente, labirintica. Mi mancherà e spero che nella seconda stagione (prevista per il 2018!) si arrivi almeno alla metà del livello a cui si è arrivati con la prima. Grazie Jonathan e Lisa, mi avete regalato dei bei momenti. E grazie anche a te pianoforte solitario del saloon, anche tu mi hai regalato bei momenti. E sì, si vede che c’è un lavoro pazzesco alla base, che c’è la dedizione e la serietà necessaria; da come si evince da questo dietro le quinte estremamente eloquente. Or bene, io mi allontano. Salgo sul mio vecchio e stanco cavallo e vado verso l’orizzonte. In cerca di un punto di ristoro. In cerca di un cactus e di un fuocherello per la notte. In cerca del mio Westworld.

*Topografie politiche di Dario Gentili, p. 75 (prima edizione 2009, editore Quodlibet)
**Benjamin di Desideri e Baldi (p. 108, Carocci editore)

***Parco centrale di Walter Benjamin

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