TRUE DETECTIVE di Nic Pizzolatto (2014) Demoni a riposo
Tra le figure concettuali (espressione di certo fuorviante e sicuramente errata) che più mi affascinano vi è ben donde e oltremodo quella del perturbante. Tra le mie maggiori consce esperienze del perturbante vi è la porta socchiusa. Io detesto le porte socchiuse. Ho l'idea perenne che una porta socchiusa dia la possibilità a qualcuno di spiarti, magari mentre dormi. Può spiarti protetto dagli spazi e dalla oscurità. Una figura che francamente non riesco ad oggettivare, non riesco a darle un volto o anche una forma, ma è ugualmente un corpo che mi inquieta. Infatti, quando posso, le porte socchiuse o le chiudo o le apro. La via di mezzo meglio di no. Se dai la possibilità ad una idea di nascondersi quella idea si nasconderà. La figura che mi spia dalla porta socchiusa è un perturbante, e lo è perché si trova all'interno del mio conosciuto. È in casa mia, è nella mia testa ed è ad un passo dalla mia stanza. È questo che fa di un perturbante un perturbante: una qualche atavica famigliarità con l'oggetto delle tue paure. Per quanto possa apparire astruso, sovente non si ha paura di ciò che non si conosce ma si ha paura di ciò che si conosce o comunque di ciò che si fa finta di non conoscere. L'inquietudine alberga nel famigliare. Noi stessi a volte ci percepiamo inquieti, anzi, siamo - a mio modo di vedere - la maggior inquietudine che possiamo ospitare. Ci conosciamo e non ci conosciamo e siamo ugualmente condannati a convivere con noi stessi. Cosa c'entra questo mio delirio con True Detective? Per me molto. Non il fatto della porta socchiusa ma la questione del perturbante. Nel cercare di avvicinarmi a questa serie mi asterrò giustamente dagli spoiler. Sarebbe cosa altamente criminale sparare spoiler qua e là parlando di una storia il cui tema è l'investigazione. Quindi niente spoiler ma solo un invito alla visione o un commento scomposto al già visto, il tutto sorseggiando qualche Lone Star (anche se io al momento sto trangugiando delle economiche ma efficaci Fahnen Bräu). Prima di arrivare al perturbante o al Re in giallo è bene quindi offrire un minimo di presentazione.
True Detective è una serie tv ideata da Nic Pizzolatto e diretta da Cary Joji Fukunaga. Otto episodi di circa un'ora ciascuno. Otto ore di sapiente scrittura e sapiente regia. Otto ore che raccontano due luoghi temporali distinti, il 2012 e il 1995. Otto ore per fare la conoscenza dei detective Rust Cohle e Martin Hart impegnati nella caccia ad un serial killer. Difficile dire qualcosa di nuovo a tal proposito, dico, a proposito di tizi che cercano di stanare un pericoloso omicida seriale. Eppure, eppure True Detective è ben più di due tizi che cercano di stanare un pericoloso omicida seriale. Molto di più. True Detective è un eccelso modo di leggere la malsana grafia di un universo malsano: il nostro. Sia da un punto di vista squisitamente introspettivo che da un punto di vista angosciosamente sociale nonché culturale. E da qui il perturbante di cui sopra. Ad esser fighi, nel parlare di perturbante, si dovrebbe dire unheimliche, scritto in corsivo e quindi unheimliche. A parte il fattore morte violenta, la figura del serial killer incamera in sé una bizzarra ed inquieta forma di attrazione nella repulsione. Personaggi come Albert Fish (tra i serial killer più "eccentrici" e spinosi) costituiscono quello che noi non siamo e che potenzialmente potremmo essere. La natura umana, si sa, è di per se equivoca a prescindere. Costituiamo una innegabile anomalia nell'equilibrio terrestre. Noi siamo un disequilibrio. A cosa serve, a livello meramente strutturale, l'essere umano? Siamo gli animali più infimi, più orridi, più gratuiti del globo. Il fatto che abbiam un cervello evoluto non ci nobilita di certo, anzi, l'aggravante è l'avere questo cervello pseudo-evoluto ed utilizzarlo nel peggiore dei modi. Personaggi come Zodiac o come i protagonisti di Memories of Murder (tanto e giusto per citare due delle recenti pellicole più belle sul tema) si fanno carico della nostra parte insana. Sacrifici necessari. I serial killer, il loro malato "merito" è quello di metter sulla piazza il nostro più dannoso demerito, ossia il nostro essere pericolosi. Pericolosi per noi stessi e per gli altri. Il serial killer è il simulacro di un perturbante molto particolare, giacché la famigliarità che ci accomuna è l'essere creature umane. Per dire, Heidegger, tra i filosofi più imprescindibili e indispensabili per chi si avvicina un minimo alla Filosofia, era un noto nazista. Nazista-filosofo che riprendendo l'inquieto appuntato di Sofocle (mica cotiche) giustappunto ri-appunta: “Nulla di più inquietante dell'uomo s'aderge”. Quale inquietudine più prossima a noi vi è se non il nostro essere noi? Nessuna. Ragion per cui a volte, durante le mie sporadiche defecazioni, mi vien semplice comprendere come il solipsismo sia la questione più pregnante di tutte.
Sostituendo spocchiosamente e con elevata arroganza Lacan a Lacan, mi viene da dire che noi siamo la metafora più visibile; il nostro essere io è la metafora più metaforica e perciò insondabile e or dunque il perturbante più orrorifico di tutti. Ma al momento non ha importanza se la lettrice o il lettore conoscono o meno Lacan o Heidegger (li ho citati a vanvera solo per fingere di saperne qualcosa); quello che conta è l'aver una certa famigliarità con l'inquietudine. True Detective ha a che fare con l'inquietudine ed ha molto a che fare con il perturbante. Lo si capisce addentrandosi nella serie. Il familiare che è estraneo, il noi che è un altro noi. La caccia ad una entità malefica che in realtà è un cercare di categorizzare e risolvere, per quanto possibile, il nostro essere demoni a riposo. Come dice l'Heidegger di Essere e Tempo citato da tale Bellavita (cioè vedisi il saggio Schermi perturbanti): "L'angoscia davanti alla morte è angoscia davanti al poter essere più proprio, incondizionato e insuperabile". Il proprio in True Detective è inizialmente l'occhio di una telecamera (e altresì l'occhio dello spettatore che di riflesso ci racconta). Uno sguardo deprivante. Non a caso il detective Rust Cohle, un sempre più bravo Matthew McConaughey (il filosofo tra i due protagonisti), per sentirsi a casa chiede-esige di potersi fare qualche birra (la già menzionata texana Lone Star). Da dire poi che in casa propria Rust Cohle ritrova ancora lo sguardo di un occhio, anche se questa volta è il suo. Scrive simpaticamente Derrida (in Spettri di Marx), parlando di fantasmi, che lo spettro ci guarda prima ancora che noi vediamo lui, ci guarda dall'altra parte dell'occhio. C'è un noi spettrale che ci guarda, sempre in anticipo su noi stessi, un noi familiare. Un io che sono io ma che nel doppio-triplo salto del guardarci si fa spettro. A tal proposito, hai mai provato a guardarti in un piccolo specchio andando però con questo a cercare il tuo sguardo dato da un secondo specchio più grande posto alle tue spalle? In una strana combinazione di sguardi sembra di essere spiati da un altro. Sarà per questo che Cohle preferisce non guardarsi troppo limitandosi a specchiarsi l'occhio? L'angoscia emerge piano piano, dai luoghi intimi. La propria casa, una chiesa (luogo che dovrebbe essere di riconciliazione), la famiglia, i figli, la moglie. Cohle, un uomo minimale, essenziale - vedasi ribadisco l'arredamento di casa sua - è un individuo che si muove su altri livelli, un uomo conscio dell'inganno materiale e del tempo che è nicciana circolarità; condannato ad annegare nell'eterno ritorno dell'uguale pur contemplandolo. Cohle è un curioso orpello spirituale, ma uno spirituale inteso come altro sguardo dal mero sguardo. Sarà un caso quindi - come viene suggerito quì - che il suo cognome richiami foneticamente core (anima)? E sarà un caso che il suo collega Martin Hart (un calzante Woody Harrelson) rievochi invece la materialità o istintività più essenziale? Ossia l'heart, il cuore. Come a dire che lo sguardo altro (alto) di Cohle debba allontanare Hart dall'illusorio e sicuro ancoraggio apparente. Il nocciolo (core) arrugginito (rust) - condannato allo sguardo del proprio spettro - riesce a vedere dove il cuore non può. La classica cecità platonica del mito della caverna ma anche la medesima parola con due significati diversi; l'andare al nocciolo della questione di Cohle e il subire gli scossoni del cuore di Hart. Due cuori e due capanne.
E solo i fantasmi (metaforicamente parlando) riescono a vedere davvero Cohle, a vederlo cittadino di un luogo che potremmo chiamare Carcosa, tanto per citare oltre al bronzo anche lo scrittore statunitense Ambrose Bierce che parecchio ha ispirato un altro scrittore - Robert W. Chambers - per il suo Il Re in Giallo, romanzo che di certo ha ispirato Nic Pizzolatto, ideatore di True Detective. Gente che ispira altra gente. Nic Pizzolatto, con le sue "ossessioni culturali", come egli stesso dice. Ossessioni quali Lovecraft, Schopenhauer, Ellroy, Cioran, Conrad, Dostoevskij, Faulkner. E se lo spirito - o l'anima - di Cohle è inquieto giacché come direbbe Georg Simmel, lo spirito non è meno a rischio della carne, che ruolo ha la natura carnale a parte quello di voler zittire lo spirito? In effetti, quante volte Martin farebbe volentieri a meno delle parole di Rust? Ma il cuore di Martin Hart è un cuore non meno tormentato di quello di Rust Cohle. Hart è così ancorato alla carne da esserne schiavo. Una coppia ben assortita, si potrebbe dire. Distanti e a loro modo complici nonché... carnali. E quindi nel loro disequilibrio i due viaggiano in un unisono inquieto ed equilibrato. Il giusto equilibrio instabile, adeguato ad affrontare il perturbante sempre lì, nel suo respiro gelido. Un perturbante minaccioso ed in agguato come il Re in giallo di Chambers. Ossia uno scritto teatrale che, pare, sia capace di far scivolare lo sventurato lettore nella follia più oscura. Quando inizi a vedere un vestigio giallo vuol dire che devi iniziare a preoccuparti. Vuoi per abuso di alcol, vuoi per abuso di droghe, vuoi per abuso di umani, quando una traccia gialla appare sappi caro mio che il baratro si prepara ad arredarti la stanza.
L'indagine or dunque è multipla, è su più elevati livelli. Da una parte c'è da stanare il serial killer e dall'altra c'è da stanare sé stessi per poi sublimare il tutto - chissà - in una ulteriore decadenza. Una decadenza lunga oltre 500 pagine (ossia la lunghezza della sceneggiatura), uno script che tra l'altro, originariamente, vedeva McConaughey nel ruolo di Hart (successivamente è stato lo stesso McConaughey a chiedere invece che gli venisse assegnato il ruolo di Cohle). Un'indagine che vede come teatro la Louisiana che, a detta di Pizzolatto, è il terzo protagonista. “Il paesaggio come cultura”. Un paesaggio nichilista quanto le figure che lo abitano. Il tutto poi narrato in forma di flashback. Cosa non nuova nel genere (vedasi uno dei primi e fulgidi esempi ne Il mistero del falco di John Huston, datato 1941) ma comunque estremamente affascinante visto il vortice narrativo generale. Un percorso a ritroso, in True Detective, che è un marcare ancora una volta lo scavare nell'animo (e nel cuore) dei protagonisti e un zampettare di loro stessi, con magari qualche pausa urinaria, nell'inveterata o per meglio dire congenita propensione al male. E se inveterato significa "abituale e ormai incorreggibile", la congenita propensione al male significa che non v'è rimedio ad un non rimedio. A meno dell'ottimismo saltami addosso o del Padre perdonami perché ho peccato ciò che perpetuo avanza e ritorna è l'essere noi le creature peggiori possibili. Con moti di derisione al peggio, ove ecco sbucare quell'arroganza che, parafrasando, ci porta a strappare un'anima dalla sua non-esistenza per racchiuderla in questo corpo di carne, obbligandola così a vivere in un mondo che falcia via tutto. Cohle e Hart come circoscritti in un quadro di Ensor. Per fortuna che c'è anche Michelle Monaghan (e tra l'altro io vorrei vivere nell'eterno ritorno dell'uguale assieme alla Michelle Monaghan di Kiss Kiss Bang Bang). E per fortuna che ci sono Pizzolatto e Fukunaga che leggiadri ci portano a passeggio all'inferno (il nostro), regalandoci una scrittura meticolosa, sorprendenti piani sequenza, protagonisti fantastici e messa in essere della malattia mortale dell'io; tanto per ribadire con Kierkegaard lo spiraglio allucinato dal quale il perturbante ci osserva, con l'aggiunta che a quello sguardo nel buio noi ora indirizziamo il nostro, mentre nell'attesa riecheggia lo stappare dell'ennesima Lone Star, la bionda birra texana. Sto delirando in eccesso? Tiriamo il fiato con qualche curiosità: le strutture coi bastoncini partono da una ricerca di Pizzolatto di natura "archeologica" (che vede coinvolta la Louisiana stessa) per poi trovare un successivo e suggestivo accompagnamento in altri bastoncini, quelli nei quali si imbatte il protagonista del racconto Sticks scritto da Karl Edward Wagner che a sua volta si è ispirato ad un episodio reale vissuto dall'amico artista Lee Brown Coye. Altra curiosità: ad un certo punto un'auto necessita di una spinta, quella scena non faceva parte della sceneggiatura ma è stata aggiunta praticamente dal vero giacché l'auto necessitava davvero di una spinta. Per un ulteriore mio ottuso commento - con spoiler- sulla serie rimando non ad un luogo lontano ma a quanto segue… E ora qualcosa su Carcosa.
Tentando di svincolarmi da questioni prettamente platoniche ci sono comunque ricaduto dentro. È stato inevitabile, consequenziale al percorso conclusivo di True Detective. E quindi specificando che quanto segue contiene pesanti SPOILER, ossia lo svelamento dell'intreccio, consiglio vivamente a chi sta leggendo di terminare qui la lettura e di godersi o ripescarsi questa pazzesca serie televisiva in santa pace; serie che tra le altre cose potrebbe ben donde e oltremodo essere considerata un film lungo 8 ore. Tempistiche alla Béla Tarr. Quanto segue invece è da considerarsi un sorta di pelosa e non richiesta appendice a quanto detto, con estrema supponenza pochissimo sopra. Quindi, da dove concludere? Da Platone e dal noto mito della caverna e quindi dall'entrata nella pancia di Carcosa. Ne La Repubblica ad un certo punto il buon Platone ci racconta del mito della caverna. La caverna è abitata da uomini che non hanno mai visto la luce, prigionieri che in quella diamine di caverna ci sono nati. Per loro il mondo è quell'oscurità e le ombre che la abitano sono il loro sociale. E se uno di quegli uomini si liberasse dalle catene delle quali è prigioniero e avanzasse fuori dalla caverna? Per farlo ci sarebbe bisogno di un uomo illuminato, una persona che ad un certo punto intuisse che il reale al quale è costretto non è reale. Un uomo che dovrebbe avere il coraggio di percorrere i corridoi oscuri e gettarsi verso l'ignoto. E una volta fuori? Fuori dalla caverna rimarrebbe inizialmente accecato dalla luce del Sole ma poi, gradualmente, vi si abituerebbe. Quell'uomo avrebbe così conquistato il vedere reale. Potrebbe quindi ora tornare indietro e dire a tutti gli altri che la realtà è fuori dalla caverna e non è la caverna. Farebbe bene? Sarebbe cosa saggia da farsi? No, innanzi tutto perché rientrando nella caverna dovrebbe nuovamente abituarsi al buio e poi, in special modo perché gli uomini, gli schiavi della caverna riderebbero di lui e forse lo minaccerebbero anche di morte. Or bene, cotale graziosa allegoria ci dice una cosa semplice ma estremamente importante. Ci parla della condizione dell'essere umano, prigioniero delle apparenze, e del riscatto al quale egli può giungere - sfruttando le sue potenzialità -. È sufficiente voltarsi e alzarsi. Seguire l'impulso alla conoscenza.
Cosa c'entra questo con Carcosa? Carcosa è il ritorno alla caverna. Il passo indietro che è meglio non fare. Carcosa è abitata da schiavi ed è governata da un Re. Un Re non reale (o sì?) ma anch'esso allegorico, un re fatto di scheletri (in tutti i sensi). Cohle (Matthew McConaughey) vi si addentra per primo. Da uomo che vede oltre il sensibile la cosa - di entrare lui in Carcosa - è oltremodo sensata. Il ritorno ad un mondo irrazionale e quasi paradossalmente ultrasensibile, nel senso di ultraterreno. Ma giacché il percorso è comunque inverso il non sensibile col quale Cohle dovrà fare i conti è quello rovesciato e stravolto di un incubo. Cohle, il piccolo prete, dovrà contemplare - con gli occhi che col tempo hanno acquisito una certa luminosità di sguardo - l'origine. La coscienza originaria all'interno della spirale. Spirale che, come noto, è un archetipo non da poco (fa pure rima). La spirale, si può dire, parte da noi stessi in forma fisica ed immediata (è sufficiente guardarsi i polpastrelli) e prosegue ad un livello cosmico. Origine, energia, ritorno. Un ritorno di Cohle ad un sé, o meglio un passo fondamentale verso un sé attraverso il camminare nei labirinti di Carcosa e nella psiche dell'inserviente di Carcosa, in uno dei figli del Re, uno degli angeli: Errol Childress. Ad un certo punto, Cohle vede tutto. Contempla il ritorno e l'origine: una nube a spirale con stelle nere che le gravitano attorno. Stelle nere già preannunciate da Reggie Ledoux, l'altro angelo del Re. È l'inizio per Cohle di un percorso interiore che proseguirà in modo più personale durante la sua convalescenza in ospedale. Come ho letto in una interessante analisi: “Ci potrebbero essere dei mostri in attesa di noi alla fine del sogno, ma le stelle potrebbero essere la prova che abbiamo una chance contro il buio”; solo che, aggiungerei io, quelle stelle sono... nere. Questo per evidenziare come True Detective non sia unicamente la storia di due tizi che danno la caccia ad un serial killer ma è anche e soprattutto un'indagine sopraffina sull'essere noi. Sui perturbanti che ci inchiodano sulla soglia, sul prenderne coscienza. Non c'è nulla di consolatorio oltre la fine del sogno, nulla di puerilmente ottimistico. Hart (Woody Harrelson) presumibilmente non ritornerà più con Maggie e Cohle non smetterà certo di essere Cohle. “Non cambiare mai” dice Hart a Cohle mostrandogli il dito medio. Non c'è un “E vissero felici e contenti”, c'è, come suggerisce lo stesso Nic Pizzolatto un cambiamento fisico, di luogo. C'è un cambiamento di luoghi, dalla ricerca e il ritrovamento di Carcosa al vivere in un nuovo luogo ma con magari maggior speranza offerta, in antitesi, dalla consapevolezza.
Il mito della caverna platonica e l'esperienza di uscirne, entrarne e poi uscirne di nuovo. Da dire che, oltre al palese mito platonico, Carcosa (che tra parentesi puoi andare a visitare qui, a pochi chilometri da New Orleans), mi ha portato alla mente anche l'antro di Trofonio. Ora, non per sparare l'ennesimo pippone ma giacché questo è il mio blog non vedo perché no. A volte bisogna un po' suonarsele e cantarsele. No? Or dunque, come racconta Pausania il Periegeta chi si addentra nell'antro di Trofonio per consultare l'oracolo deve prepararsi ad uscirne poi cambiato se non completamente pazzo. Pare che l'orrore al quale si può assistere all'interno della grotta è tale da farti passare la voglia di ridere per il resto dei tuoi beneamati giorni. Per certi aspetti, quindi, come non vederci una similitudine con la Carcosa di True Detective? Se si pensa poi che prima di arrivare alla bocca dell'antro bisogna passare attraverso un intricato mantello di vegetazione. Se si pensa oltre all'inoltre che addentrarsi nell'antro equivale, da un punto di vista prettamente simbolico, al rinascere. Non a caso la storiella di Trofonio viene menzionata anche da Nietzsche, l'uomo dell'eterno ritorno dell'uguale. L'estimatore del nichilismo attivo (da non confondersi con quello passivo). E oltre a tutto ciò, a me le gallerie di Carcosa mi han infine riportato alla mente la parte conclusiva di It di Stephen King, lo scontro finale nella tana del ragno. Luoghi allegorici, strutture dell'inconscio. Architetture della tenebra di cui è parte l'essere umano. Rimandi su rimandi ed inquietudini persistenti. Ma come direbbe Cohle: “Senti, Nietzsche, chiudi quella cazzo di bocca!”
Che dire? Serie favolosa! Così favolosa che io gli ultimi due episodi li ho visti consumando eccessive dosi di limoncello (in quel momento era il mio re in giallo) concedendomi delle pause di assestamento con la birra. E quindi, diamine, ho assorbito il tutto a livello quasi onirico. Vivendo più per sensazioni che per visione effettiva. C'era più affetto in me che effetto. Come addormentarsi ed ascoltare al contempo una canzone. Vedevo il verde della vegetazione e la sua ontologica freddezza. Già, non so se ti è mai capitato di inoltrarti in luoghi che, come dire, sono strani e inquieti. Luoghi all'aperto. I ciuffi d'erba intorno alla casa, il vento. L'allungare lo sguardo oltre l'intreccio di rami e foglie. Forse è una questione di imprinting o un... archetipo. Molte persone hanno trovato morte violenta nella vegetazione. Il mondo naturale, nel suo essere asettico, è un teatro e un testimone senza voce e senza testimonianza. Devo dire quindi che i luoghi in linea di massima mi fanno un certo effetto bizzarro. Sarà per questo che forse mi sono affezionato allo stare seduto in auto (or ora che scrivo sono in auto). L'auto ti dà modo di spostarti stando a riparo. Certo, non puoi farci molte cose dentro ma ha una particolare instabilità propedeutica. Il fatto che una abitazione è, sovente, per sempre mi inquieta. Mi inquieta l'idea che in questa casa ci sono nato e poi ci morirò o che vedrò delle persone morire in casa. C'è un enfatizzare il tempo nella stabilità dei luoghi. Questo ora cosa c'entra con True Detective? Niente. E infatti concludo dicendo che il giorno dopo il limoncello mi son dovuto rivedere le ultime due puntate giacché praticamente non me le ricordavo più. È stato bello avere a che fare con True Detective e mi mancherà e vorrei quindi condividere. Condividiamo. E grazie, grazie di cuore a Nic Pizzolatto e a Cary Fukunaga per aver dato vita a questo film lungo otto fantastiche ore. Non è facile trovare un modo così eccelso di spendere il proprio tempo.
Un paio curiosità non richieste: Reggie Ledoux, il primo angelo del Re che incontriamo. Per alcuni con la sua prima agghiacciante apparizione si voleva rendere omaggio al Cthulhu di Lovecraft (autore comunque presente nella serie). In realtà Pizzolatto si rifà alla pittura di Bosch nonché ai medici che operavano durante la peste. Quando Ledoux viene “beccato” dai nostri due detective indossa un asciugamano, un asciugamano sbiadito firmato My Little Pony. Quindi Ledoux probabilmente oltre ad essere un chimico autodidatta era anche un brony, ossia un adulto in fissa con My Little Pony. All'abbigliamento (notevole) di tutti ci ha lavorato la costumista Jenny Eagan (Non è un paese per vecchi, Iron Man 2, A Serious Man sono tra i suoi titoli). Suo quindi anche l'abito del Re in Giallo. Interprete di Errol Childress è Glenn Fleshler (Boardwalk Empire, Blue Jasmine). L'attore in un'intervista ha scherzato domandandosi se potrà evitare sguardi strani al parco giochi andando a prendere il suo bambino. E rivela anche che non è stato facile mantenere il segreto del suo personaggio per oltre un anno. Racconta inoltre di aver lavorato di notte allo script della serie, quando sua moglie e suo figlio erano a letto. Terminato il lavoro andava a letto visivamente scosso. Su True Detective Fleshler dice: “Trovo che sia un lavoro pionieristico e sono orgoglioso di averne preso parte. In qualche strano modo, tutta la recitazione che ho fatto negli ultimi 25 anni o giù di lì mi ha allenato per questo ruolo”. Attualmente Glenn Fleshler sta pensando di perdere un po' di peso e su questo dice: “Dovrò ottenere alcuni suggerimenti da McConaughey su come far tutto”. L'unica cosa che Fleshler ha in comune col suo personaggio? L'abilità nel lanciare l'ascia. Detto ciò, niente, ciccia. Alla prossima.
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