THE WHISTLEBLOWER di Larysa Kondracki (2010) Contro i mulini a vento

Se, a partire dalla metodica durante la guerra nei Balcani, lo stupro inizia ad esser ufficialmente riconosciuto dalle Nazioni Unite (Risoluzione 798 del 1992) atto genocidiario di matrice bellica e se si è andati poi ad attestare che lo stupro è da considerarsi crimine contro l'umanità (Consiglio di Sicurezza dell'ONU, Risoluzione 1820, 20 giugno 2008. Meglio tardi che mai, tra l'altro.), il compimento di tale crimine da parte degli stessi sorveglianti delle Nazioni Unite come andrebbe inteso? Non solo un atto di criminalità legalizzata o auto-legalizzante ma anche una più che inquietante legittimazione militare-economica-politica in scala globale. In sostanza o in soldoni, il succo è questo: allo stesso modo di come si appaltano lavori di costruzione o ricostruzione, esiste anche l'appalto (in questa accezione si può parlare di outsourcing) per lavori di sicurezza, ossia di messa in sicurezza nonché sorveglianza di luoghi caldi. Io, ad esempio DynCorp, agenzia di sicurezza privata, mi offro agli stati che ne fanno richiesta. Lo stato mi paga ed io, DynCorp, spedisco i miei “sorveglianti” - contractor - in quelle zone. Da una parte la mia società ricava un gran bel guadagno, dall'altra lo stato che ha richiesto il mio servizio viene sollevato da tutta una serie di problematiche di guerra: si risparmiano denaro, uomini e consequenziali ricadute in termini di opinione pubblica (se muore un soldato è una cosa, se muore un impiegato volontario è un'altra). La privatizzazione della guerra è or dunque e innanzitutto un grande affare (un fatturato di 100 miliardi di dollari all'anno è un grande affare) ed inoltre l'outsourcing lo rende un affare sicuro, un equilibrio di responsabilità così ambiguo da svincolarsi dalle responsabilità stesse. Non sei un militare, quindi non rispondi a leggi militari, sei un dipendente, che gode di immunità diplomatica, non rispondi ad un Governo ma ad una società (PMSCs, private military security companies). Dall'altra parte... Conflitto tra etnie (serbi, croati, bosniaci,  montenegrini, macedoni), conflitti religiosi e conflitti linguistici (lo sloveno, il serbo, il macedone, il montenegrino, le sfumature dello ijekaviano e quelle dell' ekaviano...). In parole povere, guerra della Bosnia Erzegovina (1992-1995).
L'identità è una motivazione sovente capziosa per scatenare conflitti. La difesa di una propria identità, territoriale, religiosa. Mentre – curiosamente - l'aspetto più palese, ossia l'identità come “esseri umani” viene ignorata. Non solo, l'identità bramata divora l'identità sacra, come fenomeno esistenziale; vale a dire, in questo marasma identitario, si tende ad annientare l'identità umana di singoli individui. Nel caso suddetto (a questo post e a questo film) il mezzo usato è lo stupro. Lo stupro etnico. Inimmaginabili le varie orrende modalità, lo stupro carnale e psicologico. Per cercare di riportare le cose ad un giusto equilibrio ecco quindi che sopraggiungono organismi di sorveglianza sotto l'egida delle Nazioni Unite. Da qui parte il film della Kondracki (canadese, al suo esordio) e il suo raccontare la vera storia dell'agente Kathryn Bolkovac. Una poliziotta americana, che versa in non brillanti situazioni economiche e familiari, vede un'ottima soluzione remunerativa e la coglie al volo. Partire per la Bosnia e lavorare 6 mesi per la DynCorp, con una paga complessiva di 100 mila dollari. Lei accetta e parte. Ad un certo punto, come se non bastasse il toccare con mano l'orrore insito in una comunità mutilata, l'agente Bolkovac si imbatterà in qualcosa di ancora (se possibile) più agghiacciante, il sospetto che un folto gruppo di suoi colleghi – i corpi di pace - possano essere parte attiva di un traffico di esseri umani, oltre che clienti del loro stesso traffico. In un territorio altamente ostile, inimicandosi i colleghi e trovandosi contro una società non solo affiliata all'ONU ma anche pagata dal suo paese, all'agente di polizia toccherà trovare un modo per alzare la testa e lanciare il suo richiamo d'allarme (whistle-blow, fischiare) non sarà cosa né facile né indolore. 

Tratto dal libro denuncia della stessa Kathryn Bolkovac, il film (in Italia è uscito direttamente in DVD) è una ricostruzione abbastanza inquietante di una realtà semi conosciuta. Alla fine poco conta che la regia non sia propriamente eccelsa (avrei preferito toni più freddi, alla Kathryn Bigelow) ed è oltremodo comprensibile che cerchi - per quanto possibile - di non essere troppo didascalica. Ciò che conta è il messaggio, quello arriva e ovviamente non lascia indifferenti. Messaggio coadiuvato da un'attrice come Rachel Weisz (una delle donne più belle del pianeta) che qui offre un'interpretazione ben donde sentita, in bilico tra rabbia e impotenza, seppur soffocata dalla regia di cui sopra. Rachel Weisz a livello estetico si differenzia oltremodo dalla vera Kathryn Bolkovac, una donnona di un metro e ottanta, ma a livello emotivo ha sicuramente riportato l'afflato di giustizia e la voglia, l'esigenza inscritta di lottare della protagonista originale. Or bene, The whistleblower, film con un titolo un filino impronunciabile. Se fosse stato portato al cinema uno si sarebbe dovuto destreggiare un po’. “Buonasera, sì, un biglietto per The whiwh… The wheysthe… The whywhest… Il film che danno in sala 3”. Or bene il film lo trovi comodamente in DVD o tramite altri canali. Film non proprio da seratina con pop-corn e Coca-Cola ma sicuramente ti ritroverai davanti ad una vicenda che merita di essere raccontata e conosciuta.

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