THE END OF THE TOUR di James Ponsoldt (2015) Considera David Foster Wallace
In linea di massima gli scrittori italiani mi fanno cagare. Di recente, nonostante mi stessi alcolizzano alla grande, sono andato a vedere Niccolò Ammaniti (con l’accento sulla O e due C) che presentava il suo nuovo romanzo, Anna. Ammaniti era svaccato sul divano che avevano delicatamente posto sul palco. Non so se abbia detto cose interessanti ma so che aveva dei sandali. Io odio i sandali. Indossava dei sandali e se ne stava svaccato sul divano. Ed io ero quindi costretto a vedere i suoi piedi. Mi faceva schifo. E a partire dai sandali ho interpretato tutto quello che diceva come farneticazioni. Ammaniti farneticava di zombie di cose americane da fare “all'italiana”. Parlava seguendo un ennesimo squallido schema di chi non ha voglia e allora ripete. Aveva l’aria di uno che non ch’aveva voglia di parlare a coloro che hanno contribuito a renderlo scrittore e che gli avevano pagato il biglietto per la Sardegna. E parlava sul suo processo di scrittura e tutte quelle simpatiche cazzate. Ed io guardavo i suoi sandali e i suoi piedi. E mi facevano sempre schifo. Allora la mia mente è volata ad altro. Non ho quasi ascoltato il suo parlare di processo di creazione del romanzo perché continuavo a pensare che lui mi facesse schifo. Ad un certo punto ho iniziato a pensare che fosse meglio assistere ad un incontro con Marcello Fois. Per fortuna, nella medesima serata è arrivato Andrea Appino, il cantante degli Zen Circus.
Ad ogni modo, ad ogni modo volevo parlare di scrittori. Durante una delle prime forme di conoscenza con colei che sarebbe poi diventata la mia ragazza (termine appropriativo nonché adolescenziale) è balzato fuori che stesse - lei, la "mia ragazza" - leggendo Infinite Jest di David Foster Wallace. Io avevo annuito e dopo aver detto forse qualcosa di non tanto intelligente me n’ero andato a sbronzarmi pensando che lei mi avesse detto una mezza verità. Non riuscivo a concepire che potessi conoscere qualcuno così, mi era pressoché alieno il pensare che io non potessi avere a che fare con una persona impegnata nella lettura di quel romanzo. Per me, che nel tempo perso mi dedicavo all’alcol parcheggiato in qualche zona buia ove poter pisciare in pace, il realizzare di avere nei pressi una lettrice di DFW senza poterci avere a che fare mi destabilizzava. Mi destabilizzava tutto il contesto. La trovavo una cosa paurosamente ingiusta. Più facile pensare quindi che quella giovane donna mi avesse mentito. Sì, magari aveva anche preso in biblioteca Infinite Jest ma non era possibile che ne portasse a compimento la lettura. Col tempo è stato elementare il credere senza dubbio alcuno a cotale fatto. Nello specifico il vederla un po’ di tempo dopo, seduta in una piazzetta (aspettando il sottoscritto) tutta concentrata su Underworld di DeLillo, ha come sciolto una piega spazio-tempo nel mio cervellino. Come disferrare un anello tra due vertici uniti ed opposti di un foglio, la liberazione di una orlatura e la presentazione in piano di una evidenza; il tutto all’interno di una ecmnesia. Alla fine ero stato io a mentire a lei, dando in qualche modo ad intendere che avessi avuto a che fare con quel libro epocale. Sì, ho avuto Infinite Jest appoggiato sulla mia scrivania, ne ho addirittura letto qualche pagina ma non gli ho mai dedicato attenzione maggiore. Il mio periodo da lettore forte è terminato con gli anni Novanta; per nessuna ragione particolare. È certo che lei mi avrebbe trovato molto più interessante in quel periodo, nonostante fossi un giovane più turbato di adesso e molto più in salute nonché molto più figo. Invece ora si ritrova ad avere a che fare con una persona molle. Un cogito scomodo che più che lieta emozione è causa di tristezza, ansia e malessere. Un giovane uomo che ha perso ogni possibilità di slancio. Io mi alzo la mattina e penso: “Mi aspettano anni drammatici da vivere”.
Or bene, quando ho detto a lei del filmThe end of the tour di James Ponsoldt la reazione è stata una nullificazione dell’evento. E per me è stato lo stesso. Nel senso che portare sullo schermo un autore come Foster Wallace è un atto propizio al disastro, un’idea feudale destinata al fallimento totale. Non credo neanche di poter parlare in questo caso di pregiudizio, non lo è o non vuol esserlo. Solo che guardare il trailer del film e guardare Jason Segel vestito (travestito) da David Foster Wallace non ha dato – di primo e secondo impatto – una delle più ottimistiche sensazioni. Io proprio non riuscivo a vedere Jason Segel in quel ruolo. Oltretutto a lui bisogna poi accompagnare Jesse Eisenberg e quella sua faccia un po’ così. Sì, di James Ponsoldt avevo visto ed apprezzato Smashed e avevo anche visto, pensandone quasi bene, Brevi interviste con uomini schifosi di John Krasinski ma, pur non avendo mai veramente letto DFW, trovo poco plausibile che si possa ricavare per immagini un qualcosa all’altezza di DFW. La mia è un’idea così, a pelle e anche a palle che può sicuramente venir smentita in qualsiasi modo e momento. Ecco quindi The end of the tour, ossia la versione cinematografica dei cinque giorni che il giornalista e scrittore David Lipsky ha passato con David Foster Wallace, scrittore statunitense da non confondere con David Walter Foster musicista né con David Wallace rugbista né con David Rains Wallace giornalista. Inviato dal Rolling Stone, compito di Lipsky è indagare l’uomo – o il personaggio – che si cela dietro ad Infinite Jest. Ora, se c’è una cosa che più o meno tutti sanno è che sarebbe meglio non incontrare mai il proprio scrittore preferito. Sì, i tuoi scrittori del cuore possono anche creare un legame con te ma se tra voi due il buon Dio misericordioso ci ha frapposto la scrittura forse è meglio che quello rimanga l’unico e il miglior legame. Perché? Perché l’autore pensa seduto ad una scrivania, ha i suoi tempi e la sua solitudine. Ha il tempo anche di andare a cagare e pisciare e all’occorrenza spararsi perfino una sega. Mentre la persona in carne e ossa non può permettersi questi lussi e ti si presenta davanti in tutta la sua esiziale umanità. E sottolineo esiziale. O meglio, nell’umanità che lui decide di mostrare. Imbattersi in DFW non penso dovesse risultare semplice. La prima mozione che subito salterebbe fuori sarebbe il sentirsi inferiori a lui, il sentirsi stupidi. Il non avere strumenti di dialogo, il non trovare spazi di discorso. Il sapere di appartenere al globale ceppo di minuzie scaccolanti. Scusa David ma non ti aspettare un dialogo serrato del tipo tra Wittgenstein e Derrida, io al limite potrei essere il tuo contenitore di tabacco.
Poi però ti accade di vedere David mangiare un sacco di schifezze, bere un sacco di schifezze, guardare molta inutile televisione, puntare al più vicino centro commerciale nonché fare il classico maschio scaccia predatori dal branco e l’unica cosa sulla quale siete d’accordo sono i tamarrissimi filmacci d’azione. E allora pensi che anche per lui può esser difficile relazionarsi con te, riuscire a cogliere la tua supercollaudata quotidianità, il tuo polluto orizzonte esistenziale, il tuo fluire nel fluire del mondo psichico, il tuo personale ed irripetibile manicomio. Or bene, incompatibilmente compatibili, entrambi assaettati dalla noia. Noia che DFW ha tentato di vincere con la scrittura, pungolato però dalla chimica depressiva. A tal riguardo, scrive Jonathan Franzen, DFW ha vissuto la narrativa come la miglior soluzione al problema della solitudine esistenziale. E come dice anche Foster Wallace, per leggere un romanzo di oltre mille pagine devi essere una persona un pochetto sola. Dando al tutto una visione romantica e struggente, Franzen scrive che il suo amico David Foster Wallace è morto di noia. Dando invece al tutto una visione più pragmatica, Foster Wallace ha iniziato a morire il giorno in cui ha deciso di sospendere la sua ventennale assunzione del Nardil, il suo farmaco antidepressivo. Il film di Ponsoldt si avvicina a questo mondo, cautamente e fisicamente. Nel senso che all’inizio vediamo i capelli di Jesse Eisenberg. Capelli che si muovono qua e là, capelli un po’ infastiditi dall’eco dato a questo David Foster Wallace. Poi vediamo Jason Segel e il suo fisico imponente. Un corpo che sembra stare stretto in ogni luogo ove si installi. DFW non era così ampio e così alto ma molto probabilmente viveva la medesima costrizione. In tal senso la scelta di un attore corpulento come Jason Segel appare pian piano azzeccata, un corpo che per via della stazza si muove scomodo e sta stretto nei luoghi. Anche se – a onor del vero - permane sempre la sensazione che lui sia travestito da DFW, che quello che vediamo sia una persona che è impazzita e che nell’idolatria per Foster Wallace ha deciso di iniziare a vestirsi come lui. Jason Segel non riesce a respirare al meglio in quegli abiti ma magari neanche lo stesso DFW ci riusciva. Dico, okay soffrire di depressione ma almeno vestiti come cristodiiddio comanda. Vestirsi così può magari sembrare molto umanamente trasandato nonché indirizzare ad un qualche orgasmico stridulo ma se funziona in un poster di Alanis Morissette non è che deve funzionare anche nel tuo di poster. DFW si vestiva come un bambino di sette anni lasciato dalla mamma davanti al guardaroba e questo abbigliamento intessuto sul corpo abnorme di Jason Segel amplifica in modo grottesco l’effetto bimbo e guardaroba. Il leone, la strega e l’armadio. Con questo non voglio dire che Jason Segel sia un pessimo DFW, anzi. Così, sulla carta, ho pensato decisamente peggio a riguardo. Segel se la cava molto bene e anche i capelli di Jesse Eisenberg vanno alla grande. Sì, risulta poco credibile come fumatore ma molto credibile come allievo di un buon maestro.
Un allievo che quasi quasi diventa figlio. In una scena (con inquiete veggenze dell’11 settembre statunitense) la figura di DFW fa capolino come un padre innanzi alla porta della cameretta del figlio. E parla e dice la sua sulla vita e su quella ferita esistenziale insanabile, una ferita dalla quale bisogna sempre cercare di rintracciare una utilità comunitaria. E il figlio, steso al letto, guarda il padre e lo ammira e gli vuole bene. Anche se papà, che è un vero stronzo, non si lascerà andare all’abbraccione. Se all’inizio restiamo un pochetto insospettiti e turbati dall’andazzo del film, da quel suo iniziale alone mitologico, con lo scorrere della storia si arriva alla equa dimensione. DFW smette di essere un idolo assoluto e diventa un essere umano con il quale risulta piacevole interloquire. Non è facile raccontare al cinema gli scrittori o la materia dello scrivere. Puoi sì costruire un sacco di sequenze con lo scrittore che, sigaretta e bicchiere di alcol accanto, dà avvio al pigiare sui tasti ma non è la stessa cosa. Magari puoi fare vedere lo scrittore nell’atto di strappare il foglio dalla macchina per poi appallottolarlo e gettarlo a terra accanto al resto, ma non è la stessa cosa. E a proposito di scrittori che appallottolano la carta, questa immagine l’ho vista di recente nello spot del concorso letterario La Giara, immagine accompagnata da una disgustosa canzoncina. Come se lo scrivere fosse quello. Come se la scrittura fosse solo tanti bei periodi incastrati con cura. Scrivere felicemente, scrivere con gioia e amore per la vita. Scrivere per illuminare la modanatura del tuo edificio di ego. Peccato che questo non è scrivere, è solo far festa.
Scrivere sul serio è altro, è ordinare i rumorosi acciacchi della sintassi mentale. È un necessario esercizio resipiscente, un riparare i propri congegni sbullonati. Scrivere è come illudersi che una bandana in testa possa cautelarti dalla sua improvvisa esplosione. Scrivere è avere la carta igienica per pulirti il culo. The end of the tour riesce a portare lo spettatore in questa direzione e ad evitare un banale discorso sul mestiere di scrittore oltre ad evitare domande quali “Da dove prendi le tue idee?”. The end of the tour parla del nostro incontro con David Foster Wallace (e con i suoi cani ma sarebbe stato bello se avesse avuto pure dei gatti perché i gatti sono belli) riuscendo a non scadere nel mero mito da esaltare. DFW è un essere umano come tutti noi e il film riesce a dircelo con convinzione e cognizione. Una umanità che scopriamo annidarsi nei momenti sospesi, in un appunto sul ciglio della porta o davanti ad una pacifica distesa di ghiaccio e neve. E certo ci è sì concesso un attimo di frenesia indagatrice, è quanto mai giustificabile. Una indagine convulsa che più che come atto feticista appare come il sapere di non avere molto tempo e un volerti conoscere quanto più mi è dato. Insomma The end of the tour non è il disastro che mi aspettavo ma un piccolo film su un grande scrittore. Un grande scrittore che in conclusione di questa mia non recensione un po’ del cazzo sento di poter avvicinare ad Ovidio, l’Ovidio smarrito delle Epistulae ex Ponto. Quello che ad un certo punto della sua vita si trova a scrivere: Il mio talento, tuttavia, non mi risponde più come prima, ma sto arando un’arida riva con uno sterile vomere. Certo, come il fango ostruisce le vene dell’acqua, e come l’acqua si arresta, quando non fluisce per un impedimento alla fonte, così il mio cuore è viziato dal fango dei miei mali e i versi fluiscono con una vena più povera.
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