SULLY di Clint Eastwood (2016) Quando la salvezza scorre tra i baffi

Ciao, hai volato oggi? Come forse sai io sono una di quelle persone che preferisce di gran lunga evitare di salire su di un aereo. Sì, le statistiche dicono che vi è una possibilità su 11 milioni di incorrere nel decesso… Ma intanto quante percentuali esistono che una intera squadra di calcio muoia in un aereo, in un unico drammatico lunghissimo istante? No, non ci sono statistiche che mi faranno venir voglia di salire su quel coso di metallo. Se posso, anche trovandomi in aeroporto, faccio quanto umanamente e inconsciamente possibile per evitare di imbarcarmi. Per capirlo ti basta dare una occhiata a quanto ho scritto qui. Detto ciò, io di aerei non ci capisco nulla. Mi affascinano, mi piacciono, ma soprattutto mi spaventano. Quando sali su un aereo non è come quando sali su una macchina. Salire su un aereo è contemplare la possibilità di morire. E non dire che non sia così. Basti solo la dedizione, l’attenzione per i particolari a conclamare il fatto che stai entrando su un mezzo che, se butta male, ti condurrà a suonare le campane dell’iperuranio. Or bene, ecco due o tre cose che so sugli aerei: non sono fatti per volare. Sono fatti per cercare di volare. Se fossero fatti per volare non vi sarebbe problema alcuno. Sarebbe come salire sui 160 centimetri dell’apertura alare di un’oca canadese. Saresti felice e ti faresti un viaggio meraviglioso tra le nuvole. Ma volare non è una cosa che si confà all’umano e di conseguenza sfracellarsi a terra è, dal mio punto di vista, la cosa ben più naturale. Altra cosa che so sugli aerei? Non molto. Gli aerei hanno le ali. Le ali sono indispensabili e sono fatte per funzionare in crociera. Sì, si decolla e si atterra ma le ali non sono fatte per quello. Non a caso le ali subiscono una trasformazione proprio nella fase di decollo e di atterraggio. Nello slang dei piloti si cambia il profilo. A duopo si slitta il bordo anteriore e si scivola e si piega quello posteriore. L’obiettivo è aumentare la superficie dell’ala estraendo con leggiadria slat e flap. La resistenza aerodinamica è tenuta sotto controllo dalla toccata, ossia dalla repentina fuoriuscita degli spoiler. Durante un atterraggio di emergenza l’apertura degli spoiler è fondamentale. Senza gli spoiler lo spazio di frenata sarebbe infinito. Manovre automatiche quasi come il passare dalla seconda alla terza con in aggiunta il sostegno della rotta di avvicinamento strumentale. Il tutto seguendo il noto principio di Bernoulli. In caso di emergenza tutte queste manovre diventano la cosa più complicata del mondo.
Come sai, il film del vecchio Clint racconta quell’ammaraggio sul fiume Hudson del 15 gennaio 2009. 150 passeggeri, 5 membri dell’equipaggio. Un totale di 155 persone. Numero vittime dell’incidente: nessuno. Non morì nessuno e l’aereo scivolò sull’acqua senza subire grossi danni. Il pilota, il comandante Chesley “Sully” Sullenberger aveva compiuto quello che poi verrà definito un “miracolo”. Clint Eastwood oltre a raccontarci l’evento, mostrato più volte e con varianti assai efficaci, ci racconta anche il dopo. Vale a dire l’inchiesta sull’incidente. Poteva essere evitato? Sully non ha commesso un gesto eroico ma ha messo a rischio la vita dei passeggeri? C’erano le condizioni per tornare all'aeroporto? La questione viene sollevata con le simulazioni, simulazioni che portano a credere che sì, il comandante Sully potrebbe aver commesso un errore. Chi avrà ragione? Per scoprirlo basta guardarsi questo corposo film di Clint Eastwood. Un film salutato da alcuni come capolavoro, per me invece è un buon film. Ed è probabilmente quanto di meglio si potesse fare per raccontare e sviluppare quei 208 secondi che hanno letteralmente fatto la differenza tra la vita e la morte. Eastwood racconta molto bene questo aspetto. Riesce a trasmettere, come posso dire, l’importanza della vita umana. Riesce a mantenere costante l’attenzione sull’esistenza salvata. Si avverte quello che chiunque è stato protagonista di un incidente sente: l’attaccamento alla vita, la solidarietà, il bisogno di abbracciarsi. Sì, potrebbe essere una bellissima storia di Natale; peccato che è avvenuta a gennaio.
Il film or dunque è la celebrazione di un eroe americano, una celebrazione non eclatante ma a modo. Così come è il comandante Sully. Un uomo gentile che non finisce mai di esaminare sé stesso: “Ho fatto del mio meglio”, dice ad un certo punto. Come se avesse fallito e non salvato la vita a 150 passeggeri. Il film eredita la medesima non esaltazione e questo è uno dei suoi punti di forza, assieme ovviamente ad un Tom Hanks pazzesco nel trasmettere anche solo con gli occhi (ed i baffi) il percorso interiore di Sully. Umanità a gogo quindi? Sì, una umanità che si scontra sia con sé stessa che con il computer, la macchina, la simulazione. Chi vince dal confronto uomo-macchina? Forse entrambi. Nel senso che le macchine sono progettate da uomini. Come il sistema di controllo fly-by-wire installato proprio sull’aereo di Sully. Un computer che calcola rapidamente la soluzione migliore, la velocità da seguire. Un sistema di ottimizzazione che se ottimizza male rischia però di far schiantare l’aereo. Da qui l’unione uomo-macchina. Da una parte un sistema computerizzato che ti suggerisce con una lucina verde la soluzione migliore e dall’altra il fattore umano. Quei comandi gestiti da una mano collegata ad una mente e alla sua sensibiltià e al suo istinto. E la mano di Sully è una bella mano, ma anche i suoi capelli ed i suoi baffi sono belli. Tom Hanks e Aaron Eckhart sono davvero una coppia coi baffi. Come avere delle ali sotto il naso.

Ma ora sto degenerando e quindi sarebbe meglio dire in fretta e furia che il carattere di Sully ha per fortuna ridimensionato quello che poteva diventare una stucchevole celebrazione. Il vecchio (“Vecchio dillo a tua sorella”) Clint ci regala un bel film proprio perché riesce a diluire l’evento, riesce a condurci pian piano verso il momento dell’incidente. Quel proporcelo più volte, prima di mostrarcelo “bene”, è una soluzione assai intelligente. Non c’è una inutile ridondanza ma una vera e propria costruzione che segue pari pari l’aspetto umano. Un film che poteva facilmente essere la cosa più retorica del mondo si trasforma invece in un quieto moto. In questo modo delicato di raccontare un uomo normale (ed eccezionale), il vecchio Clint racconta anche l’umanità intorno. Riuscendo in fin dei conti a commuovere proprio in virtù di quel bisogno di unità, di solidarietà, di valorizzazione dell’esistenza. Ecco perché poi anche la fantastica battuta finale del film arriva come una umana distensione. Come un abbraccio liberatorio. Anche se poi… Chi ci pensa all'oca canadese? O chi ci pensa all’altro fattore esistenziale, quello dei polli. La super tecnologia pare in uso anche dalla NASA: il mitico cannone sparapolli. L’unico modo per testare vetrate e motori è quello di tirar loro contro cadaveri di pennuti. Carcasse di polli sparate a tutta velocità. Pare che sia anche merito di quei polli se si è arrivati a costruire quei motori. Motori che non si incendiano. Fattore umano, fattore macchina, fattore polli. L’altro mio interrogativo poi è stato: chissà cosa avrebbe fatto Ted Striker.  

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