STEVE JOBS di Danny Boyle (2015) Doppia mela doppio morso
Hello! Così come Bernardino da Siena presentava il trigramma del nome del salvatore, così Steve Jobs presentava al pubblico gli oggetti che avrebbero salvato le masse dalla scomodità delle facezie quotidiane. Dal 1984 al 1998, passando dal Macintosh al fallimentare NeXT al memorabile iMac, il tizio che è riuscito a farci pagare il doppio una mela morsicata è riuscito anche a diventare un vero e proprio guru dell’estetica funzionale o della funzionalità dell’estetica. Cosa diavolo sto dicendo? Non lo so. So però che il film di Danny Boyle non vuole raccontarci tappa per tappa la storia di un uomo che è diventato un computer ma vuole più che altro raccontarci la storia di un uomo che ha avuto seri problemi a relazionarsi col mondo oltre sé stesso. La storia di un uomo che ha faticato a vedersi padre. La cosa or bene è molto più interessante della mera cronologia biografica: il padre informatico di molti non è riuscito ad essere il padre di sua figlia. Una questione assai drammatica a ben pensarci, se si pensa poi che Steve Jobs è figlio adottivo il tutto fa quadrato o cubo. Un cubo ovviamente con una anomalia ottica, un’eccezione, quel grado in più che non rientra nello schema. Che cubo sto dicendo? Avevo in mente Fetonte. Hai presente la storia? Fetonte è figlio di Climene e di Apollo, il dio del Sole. Un bel dì, Fetonte si presenta da Apollo perché proprio non ce la fa più, vuole levarsi assolutamente un dubbio dal cuore (come dice l’Ovidio delle Metamorfosi): “Dammi una prova, o genitore, grazie al quale ognuno sappia che sono davvero tuo figlio”. Apollo, togliendosi i raggi dal capo invita il figlio ad abbracciarlo e senza star lì a far test del DNA gli dice semplicemente “Non c’è ragione che io neghi che sei mio”. Non contento, a dimostrazione che non vi è più vero del vero, invita il figlio a chiedergli qualsiasi cosa, chiedi e ti sarà dato. Fetonte chiede di poter guidare il suo bellissimo cocchio con quei bellissimi cavalli alati. Tipica richiesta giovanile – papà mi presti la macchina? - che, come noto porterà poi al disastro. Steve Jobs con la figlia Lisa è l’esatto opposto di Apollo. Apollo, una divinità fica e di successo non esita a riconoscere pubblicamente il figlio. Steve Jobs, un uomo fico (quando è travestito da Michael Fassbender) e di successo esita alquanto a riconoscere privatamente e pubblicamente il legame con la figlia. Il tema portante del film è, a mio modo scomposto di vedere, questo. Ossia una questione paterna. Una problematica che trascina con sé un qualcosa tipo la negazione e la riconquista di sé. Nel senso, parto svantaggiato e allora faccio di tutto per raggiungere gli altri e superarli. Come detto, Jobs è stato adottato. Cosa implica l’esser figli adottivi? Non lo so con esattezza. Come dice lo stesso Steve il tutto porta alla mancanza di controllo. Ma è anche vero che nessun bambino ha il controllo su di sé e sugli eventi che gli rimbalzano addosso. Non puoi ancora attraversare la strada senza la manina di papà. Tuttavia, sentendosi un bambino speciale, Steve Jobs avrebbe voluto avere il controllo anche quando non poteva averlo.
Lo Steve Jobs di Steve Jobs è un tizio con la fissa del controllare le cose e una donna che appare con una bambina che potrebbe essere tua figlia mina con poca simpatia questo controllo. Il rischio caos è elevato. Come viene affrontata cotale minaccia? Rimettendo ordine, pezzo per pezzo, formato per formato. Dai 16mm ai 35 mm fino all'alta definizione del digitale. Dal punto meno a fuoco verso il punto con maggior fuoco. Il viaggio però non può essere tradizionale, trattandosi di Steve Jobs dobbiamo avere una interazione totale tra hardware e software. Or dunque questo film diretto da Danny Boyle e scritto da Aaron Sorkin, più che un biopic è una sorta di riscrittura, una illusione. Un viaggio mai avvenuto per far sì che le cose si aggiustino, per far sì che il controllo venga ripristinato. Steve Jobs è una specie di favola riparatrice o anche il vissuto riscritto da una persona che se ne sta andando per sempre. Sì, io – nella mia inutilità di spettatore – l’ho anche vista così, come l’ultimo sguardo di un uomo che sta per morire. Tipo il Charles Foster Kane di Orson Welles. Solo che qui non si sente pronunciare Rosabella, bensì Lisa. Steve Jobs è una finestra su un mondo reinterpretato, la visione di un doppio costantemente mancato. Lo Steve Jobs di Steve Jobs è un po’ come La riproduzione vietata di Magritte, un uomo che si guarda non potendosi vedere. Or dunque quale miglior modo per resettare se stessi se non utilizzando la messa in scena del palcoscenico? In tal senso Danny Boyle fa una sua versione di Birdman, cioè un tizio che fa avanti e indietro per i corridoi cercando di risolvere le cose o comunque tentando di fare slalom tra chi lo ferma per dirgli cose. Il tutto suddiviso in tre atti. Tre atti che si sovrappongono nell’eterno ritorno ma anche in un ritorno sempre più a fuoco, sempre più digitale, sempre più chiaro, sempre più visivamente qualitativo. E prima che io scriva sempre più stronzate vorrei cercare di esprimere in modo colorato quanto sto blaterando. Se ti va seguimi in queste astruse connessioni che han per giunta la pretesa di partire e fermarsi in egual misura da Jerzy Grotowski.
Jerzy Grotowski, il noto ideatore del cosiddetto teatro povero, quando parla di attore ne parla in termini amorevolmente fisici. Nel film viene ben mostrato come Steve Jobs ci tenesse ad intavolare delle presentazioni molto fiche, andando a mostrarsi in tutta la sua stronzaggine solo per avere la camicia giusta o spremendo al limite i suoi dipendenti (magari con eleganti minacce) affinché i suoi graziosi desideri venissero esauriti. Assolutamente necessario per Steve Jobs entrare in scena in modo eccelso. Jobs diventava un attore, un attore fisico. Jobs dava pubblicamente il suo corpo. Il suo portare in scena il corpo con finalità di consenso e profitto ne faceva un attore la cui arte era lì lì per collimare con la prostituzione. L’apparire era molto importante in tal senso. L’apparenza del corpo per promuovere alla fine la concretezza della macchina. Jobs quindi entrava in scena (aveva anche un abito, un costume) ma non era lì per esibire sé stesso in forma corporea. Il corpo, l’autorevolezza della sua immagine, erano finalizzati alla presentazione della macchina. Macchina che saltava fuori come un coniglio dal cilindro. Jobs annullava qui il suo corpo e lo sacrificava. I limiti del corpo e della psiche umana venivano smantellati e ricostruiti in forma elettronica. Come direbbe il nostro Grotowski, abbiamo un atto di redenzione che muove verso la santità. La santità laica che non a caso ha trasformato Jobs in un guru. Jobs presentava sé stesso come corpo e subito dopo, scoprendo il nuovo prodotto Apple, si eliminava. Una tecnica induttiva, di sottrazione, non tanto distante da quella dell’attore povero di Grotowski. Steve Jobs è diventato Steve Jobs ricorrendo ad una oltremodo brillante tecnica dell’attore santo. In Per un teatro povero, Jerzy Grotowski pone una serie di interrogativi. Il teatro può esistere senza costumi e scenografie? La risposta è sì. E senza musica? La risposta è ancora sì. Senza effetti di luce? Sì. Senza testo? Sì. Può però esistere un teatro senza attori? La risposta è no. Ma guardando a Jobs viene quasi da rispondere di sì.
L’attore, il corpo Steve Jobs, viene totalmente trasferito nella macchina. Jobs sublima sé stesso e la sua visione del mondo nel computer. Macchina che una volta in scena vive da sola, si presenta da sola e chiama il suo burattinaio, cioè l’utente che non vede l’ora di spendere 1.900 dollari per metter mano a quel gioiello. Lo spettatore diventa protagonista, diventa attore. Nel mentre Steve Jobs lascia spazio all’umiltà solo quando è certo che dall’altra parte c’è il computer che lui stesso ha ideato. L’esperienza (vedi il cubo di NeXT) gli ha insegnato quando è il caso di arretrare, quando limare la sfrontatezza per far vincere il sacrificio. Non è quindi da escludere l’idea che Jobs, nei suoi momenti produttivamente più alti, si muovesse come in trance. La trance, scrive Grotowski, è “la capacità di concentrarsi in uno speciale modo teatrale e può essere ottenuta con un minimo di buona volontà”. E Jobs di buona volontà ne aveva da vendere. Buona volontà, perseguimento degli obiettivi, il terrore del fallimento e il totale possesso del controllo. Se in Sullo stato della nazione il drammaturgo Heiner Müller scrive che l’arte accade nell’impossibilità del controllo, Steve Jobs risponde “Non necessariamente caro Müller. Il mio Mac è un distillato di arte del controllo”. Alla fin fine Boyle e Sorkin non fanno altro che potenziare il tutto. La nozione di controllo viene assicurata nella struttura a ripetizione – ogni capitolo è speculare al precedente - e Jobs viene reso palese attore sul palcoscenico. Il mondo di Steve Jobs concentrato in una forma. Per questo io ho visto il film come una sorta di realtà parallela, o per meglio dire una vita non vissuta e una opportunità onirica - in chiave artistica - di rimediare agli errori commessi. Steve Jobs è lo spettacolo teatrale di Steve Jobs. Nel mondo reale sono uno padre di merda e mal che vada sistemo le cose con 4 mila dollari al mese, una casa, una macchina e gli studi pagati alla figlia che ho faticosamente riconosciuto. Nel mondo dove tutto è possibile sistemo le cose in modo diverso e metto a disposizione tutta la tecnologia che è necessaria per far stare bene mia figlia. Il mondo di Steve Jobs in Steve Jobs è il mondo del rimettere le cose a posto. La doppia performance di un uomo che ha reso la tecnologia un evento pari ad un concerto. E non vi è nulla di abominevole in questo, lo ha anche simpaticamente dimostrato un tale di nome Erving Goffman: l’interazione sociale è un palcoscenico. Un pimpante antropologo scozzese - Victor Turner - ha persino ideato un pensiero a d’uopo, l'antropologia della performance.
Per Turner il palcoscenico del mondo, nel suo moto drammaturgico, “comincia quando nel flusso quotidiano dell’interazione sociale si sviluppano le crisi”. Steve Jobs alloggia qui, in questa crisi che apre al dramma. Certo, è ovvio che queste mie analogie ora sono sparate a cazzo, solo per far vedere quanto ce l’ho duro ma, ne converrai, si ricade ulteriormente nella performance. E quindi tutto calza e tutto fa cubo. Steve Jobs è un circuito chiuso, uno spettacolo costantemente in scena. Palcoscenico, il dietro le quinte, dinamiche che si ripetono con una progressione però in evoluzione. Dalle cose poco chiare in 16mm alla qualità del digitale. Da uno Steve Jobs stronzo ad uno Steve Jobs sempre stronzo ma meno alieno. Il film, la finzione, e la tecnologia che va a correggere Steve Jobs. Non una mera e semplice biografia ma un secondo corpo proprio, come dice Husserl nonostante non penso abbia ancora visto il film. Un secondo corpo non totalmente coincidente con il primo, l’incongruenza de La riproduzione vietata di Magritte. Una relazione oppositiva grazie alla quale l’aggiustare le cose è ancora possibile, si è sempre in tempo per salire su un tetto di una città deserta (svuotata del reale) per aggrapparsi quanto più possibile ad una riconciliazione. Leggendo tutto in questo modo si capisce quanto il film mi sia piaciuto. Nel senso che sì, Steve Jobs mi è piaciuto assai. L’ho trovato onirico, necessariamente irreale e quindi amabilmente umano. C’è una voce che è un campanellino della coscienza, ed è lo Steve Wozniak di un Seth Rogen molto in forma. C’è un padre ed è il John Sculley di un Jeff Daniels in gran forma. E poi c’è Joanna Hoffman, ossia Kate Winslet che è l’uscita di sicurezza di Jobs ma non solo. Lei è tante cose. Dimenticato qualcuno? Ah, sì. C’è Michael Fassbender, ossia uno degli uomini più fighi del pianeta. Anche se forse non lo si nota, visto la dirompente penna di Aaron Sorkin, Fassbender in codesto film è quello che è, ossia un grande attore. L’unico dubbio forse viene su Danny Boyle, forse non è il regista più adatto per questo film. Ci devo pensare. Ci penserò. Nel mentre penso anche che sì, per aprire un prodotto Apple servono attrezzi speciali e magici ma ci si può riuscire ugualmente con un mero cacciavite e della carta gommata. Quando il mio alimentatore e il connettore MagSafe han deciso di rompersi (credo siano progettati per rompersi) io ho deciso di non spendere 80 euro per comprarne uno nuovo. Quindi, se dovessi tu avere problemi con un alimentare Apple, sappi che si può aggiustare. Ne risente l’estetica ma almeno risparmi. Or bene, Steve Jobs. Un film che può non piacere, che magari può risultare poco incisivo o poco cattivo. A me invece è piaciuto, e anche assai. Detto questo spero anche io di vivere una realtà parallela del mondo Apple, con lo Steve Jobs di Steve Jobs che viene verso di me portandomi il mio macbook bello che riparato. Con la meravigliosa voce di Michael Fassbender che, porgendomi il mac, mi dice: “La prossima volta che ti sbronzi senza pietà, abbi almeno pietà e soprattutto cura di ciò che ti sta attorno”. Grazie Michael, ti voglio bene.
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