SAUSAGE PARTY - VITA SEGRETA DI UNA SALSICCIA di Greg Tiernan e Conrad Vernon (2016) Il primo film senza olio di palma

Ciao, come te la passi? Ti stai facendo uno spuntino? A volte è piacevole mangiare fuori pasto anche perché quel tuo piccolo pasto rientra nel tuo pasto e quindi perché dovrebbe essere fuori pasto? Domande che non avranno mai risposta. Qualche risposta invece codesto film me l’ha data. Prima di dirti cosa ne penso e immagino tu non veda l’ora di scoprirlo (senza spoilerare nulla, ovviamente), ti dico che mi è capitato di andar a guardare qualche recensione. È sempre un bene andare a leggerle dopo le recensioni, giacché permane questa brutta abitudine di allungare il proprio scritto sviscerando quasi tutta la trama, momenti topici inclusi. Perché scrivere “Recensione” quando un buon 70% di quella recensione è il racconto del film? Che palle. Ad ogni modo, ho dato una rapida occhiata alle prime recensioni e il simpatico Google me ne dava in prima vista due in particolare. In una di queste si legge che Sausage Party “scandalizza per la volgarità” e per la violenza, “tanta, tantissima violenza”; nonostante ciò il film viene ampiamente promosso. Nella seconda recensione si parla di film “non-sense”, di film “decisamente” troppo politicamente scorretto, di film che all’ennesima battuta sessuale diviene una “visione quasi insopportabile”. Cristo, ma che razza di film è Sausage Party? Ti dirò che io il film me l’aspettavo proprio così: volgare e divertente. Ma sai qual è l’aspetto incredibile? L’aspetto incredibile è che non è solo un film volgare e divertente. È qualcosa di più, un più che io non mi aspettavo e che mi ha piacevolmente sorpreso. Ora, penserai che sia pronto a lanciarmi nell’ennesimo pippone pseudo filosofico, le mie tipiche non-recensioni ove l’effetto è solo quello di provocare nausea, mal di testa e dolori mestruali. Quindi, questa volta cercherò di essere il più stringato possibile, scansando inutili riferimenti alle colonie ioniche dell’atavica Asia Minore. Devo dire tuttavia che questi miei altezzosi riferimenti filosofici non hanno come scopo quello di allungarmi il pene (anche perché se fosse più lungo di quello che già è non so se riuscirei poi a portarmi il cibo alla bocca). Il fatto è che mi pare vi sia una considerazione semplicistica della filosofia, considerandola quella cosa complicata che non capirò mai. Il punto è che tutti quotidianamente facciamo esperienze filosofiche. Viviamo sulla nostra pelle tematiche che possiamo incontrare in Aristotele, Kant o Plinio Pinzo. Per dire, vivi nel timore che una brutta esperienza passata possa ripetersi? Be’, sei protagonista di un sentimento d’angoscia ben descritto da Kierkegaard. Ti ritrovi nell’irritante situazione di non riuscire a rispondere per le rime o semplicemente a non riuscire a comunicare con urgenza i tuoi sentimenti? Troveresti nell’iracondo Wittgenstein un alleato. Or bene, la filosofia non è nulla di imprendibile; la filosofia è quel paio di occhiali che non trovi ma che poi scopri avere già indosso. Non ti accorgi di indossare gli occhiali come non ti accorgi di riuscire a vedere.
Non starò quindi qui a propinarti le mie ennesime stronzate ma ti dirò due cose due su Sausage Party. Frank (Seth Rogen) è una simpatica salsiccia che vive nel supermercato assieme a tutti gli altri cibi. Ogni giorno per i cibi è una festa perché potrebbe essere il giorno in cui vengono scelti dagli dei, cioè dagli umani che acquistano. Uscire dal supermercato sarebbe per loro raggiungere il sognato Grande Oltre. Frank quindi, come tutti, aspetta. Nel mentre è anche impegnato a portare avanti la sua intesa sentimentale con Brenda (Kristen Wiig, donna che amo), il panino che chissà forse in un giorno non troppo lontano riuscirà ad abbracciare la sua salsiccia. Il supermercato, un vero e proprio sinecismo. Ossia il centro di raccolta di una comunità calorica: il cibo. Una comunità intensamente legata alla divinità, l’uomo. Una civitas dei. Il cibo vive felice immerso in questa cultura religiosa sorretta dall’idea teleologica della civitas dei (come direbbe Husserl, ma fa finta che io non l’abbia detto); c’è Dio, l’unica sacrosanta norma unitaria che tutto vede e tutto sa e tutto sceglie. Dio è il collante delle loro esistenze, è il loro esistere. Sarebbe in tal caso interessante non escludere la matrice ebraica in tutto ciò, nel senso che molti dei comici americani in circolazione sono di origine ebrea. La tradizione ebraica ha influenzato assai positivamente la filosofia del Novecento e ora, in modo decisamente più demenziale, vi una tradizione ebraica nella comicità (tra l’altro nel film vi è un personaggio, Sammy, doppiato da un Edward Norton in chiave Woody Allen). Ecco quindi che il cibo scelto da Dio (l’uomo), vive un’esperienza elettiva. Una convocazione che non può non essere parte della cultura ebraica. La chiamata di Dio, l’esperienza religiosa per antonomasia.
Frank (che poi è un modo gergale per nominare il cazzo) è anche lui accecato dall’orizzonte di luce della possibile chiamata di Dio, per sua fortuna però qualcosa va storto e quindi il nostro Frank inizia un percorso atto ad esercitare il suo lato razionale. Frank, come Dante, diviene colui che ha troppa voglia di sapere e come Dante degusta il topos dell’indeterminatezza (e fa sempre strano degustare un topos). Quel “non so che” che apre la strada al voler sapere di più. C’è un non so che di ambiguo in Dio, magari ci indago un po’. Una indagine che è l’ennesima allegoria del mito della caverna platonica (ma fai finta che non l’abbia detto); sai, quella storiella che appare nel settimo libro della Repubblica di Platone da dove si ricava che il mondo visibile è diviso in finzione e verità. Il supermercato è il mondo della finzione, quello che sta fuori dal supermercato è il mondo della verità. Dalla dóxa all’epistéme, giusto per usare parole forti. L’intuizione, il bisogno di sapere, rendono Frank non uno qualsiasi ma un personaggio con i cosiddetti attributi. Dopo aver respinto l’abbaglio della luce divina, ciò che resta a Frank è una nuova modalità dello scoprire e del protendersi in avanti. Una nuova modalità del muoversi in direzione di ciò che non è ancora stato scoperto. Ernst Bloch chiamerebbe questa irrequietezza il “non ancora conscio” (ma fai finta che non l’abbia detto). L’arrivo del messia viene d’improvviso sostituito dall’arrivo di un futuro nuovo, da ricreare, libero dall’immobilismo al quale Dio ha condannato tutti. Ora non c’è da portare al popolo eletto le tavole della Legge ma c’è da portare al popolo le - diciamo così – tavole della verità. Il tempo messianico dell’attesa è stato sostituito dall’indeterminato “non so che”, peccato che l’uccisione di Dio a volte deve passare dal Dio che uccide noi. Povero Frank e povere salsicce. Sperimentare la giusta violenza di Dio (la Gewalt divina di cui parla Walter Benjamin, ma fai finta che non l’abbia detto) non deve essere piacevole. Lo diceva Kafka ma anche un pomodoro sul tagliere potrebbe dirlo: “C’è molta, infinita speranza. Ma non per noi”. È Dio ad avere l’autorità e il possesso su di me, la sua legittima autorità lo consacra e mi condanna. Qui Frank non è d'accordo.
Un corso di filosofia che avevo seguito parecchio tempo fa aveva per titolo L’inquietudine del filosofo, è stato un bel corso, bello pregnante, ho superato l’esame alla grande e ringrazio il professor Comerci (con una m) per esser riuscito a trasmettere la curiosità per l’argomento e… Oddio, avevo detto che non avrei fatto pipponi filosofici. Gesù, ci stavo cascando di nuovo. Sono proprio una sega. Reset! Dicevo di Frank. La salsiccia Frank or dunque si ritrova a sperimentare l’inquietudine. Quale inquietudine? Quella che nasce quando si vuole andare oltre, persino oltre il Grande Oltre, quando si porta la mente ad andare verso ciò che ancora non c’è. Verso l’infinito e oltre, diceva Buzz Lightear. Quando scopri che Dio vuole ucciderti cosa fai? Eh? Cosa fai? Spari all’ostaggio? No. Risposta sbagliata. Perdere un orizzonte di senso, ciò che per te aveva un senso, crea una felice conseguenza. Una conseguenza che un filosofo come Jean-Luc Nancy chiama “spartizione” (ma fai finta che io non l’abbia detto). Senza Dio ciò che rimane siamo noi, e noi siamo uno spazio vuoto da riempire costantemente di significati ben più costruttivi di una qualsiasi divinità. Basta quindi con il restare dritti a guardare in alto in cerca di esser chiamati da Dio che si avvicina col suo carrello, bisogna inclinarsi per avere una inedita visuale, osservare la soglia dell’essere in comune e far crescere l’unico vero senso possibile, quello del comunitario. Sausage Party dice ciò? Cazzo se lo dice! Ci dice che l’assoluto non va preso sul serio, ci dice che la metafisica dell’assoluto è una stronzata che fa violenza a sé stessa (guardando il film lo capirai). Senza Dio che ci fa la spesa, o meglio, che ci fa spesa, ad emergere è finalmente il comunitario, il noi. Un modo d’essere e di pensare che Nancy declina in forma di tatto (fingi che io non l’abbia detto). Dio ci acceca, noi dobbiamo toccarci. Con il tatto non si viene inglobati ma ci si scopre, ci si indaga. Il toccare non è una appropriazione ma un lasciar essere, lasciar essere l’altro, preservare l’alterità. Sausage Party, nella sua baldoria, ci dice un qualcosa di molto importante: essere atei non significa essere il male. Non significa essere poveri e tristi. Non significa essere dei miseri stronzi. In tal guisa il film è brillantemente icastico (ica che?), ci mette innanzi ai limiti della nostra realtà. Ci mostra che non c’è molta differenza tra il Dio delle salsicce e il Dio degli esseri umani.
Tirando, come si suol dire le somme, Sausage Party non è un film non-sense, volgare e violentissimo. Se il non senso equivale al nichilismo (come potrebbe dire anche quel simpaticone di Dostoevskij) il nichilismo di Sausage Party non è un attorcigliarsi in sé vorticoso ed inconcludente ma al limite è un nichilismo attivo e quindi il suo senso ce l’ha. Ma ce l’ha anche a prescindere dalle stronzate pretestuose che sto scrivendo. È poi un film volgare? No, cioè sì, è volgare, ma la volgarità è nell’occhio di chi guarda (dopo questa frasona posso anche andarmene). E non è neppure un film violento, Dio, ma perché violento?! È un film che io ho trovato divertente, con una marea di pensate geniali e con quelle citazioni cinematografiche molto fighe (sviscerate purtroppo da alcune recensioni). È irriverente, molto irriverente e si prende gioco di tutto ed è cosa sana e giusta che sia così. Vogliamo prenderci gioco della diatriba tra ebrei e musulmani? Sì, perché alla fine le cose si possono risolvere banalmente con il suggerimento di una salsiccia. Certo, è un film per adulti anche se magari ci sarà poi qualche genitore distratto che porterà i figli al cinema per codesto film. Come se già non ci fossero sufficienti minorenni idioti in questo paese. È richiesta quindi la capacità di filtrare certi messaggi nonché l’intelligenza appena necessaria per scindere gli ingredienti. A tal proposito è interessante come molte delle commedie americane recenti celino in realtà dei messaggi. Purtroppo sembra che i più vi vedano solo dei film stupidi senza capo né coda. Film volgari con tante parolacce e non poco velati rimandi sessuali. Chissà perché poi invece si è oltremodo inetti nel rintracciare la volgarità nella quotidianità, il sessismo nella quotidianità, la stupidità nella quotidianità. Si è davvero ciechi in prossimità di sé stessi. 

Il volgarissimo cinema americano contemporaneo invece è sorprendentemente meno volgare di una qualsiasi coppia di stronzi che puoi incrociare in metropolitana. Okay, parlano di sesso (omioddio!), ci sono cazzi e si fanno le pernacchie ma andando a guardare meglio vi si trovano anche dei messaggi. Indipendentemente dalla riuscita complessiva, ad esempio, io in film come Ghostbusters (2016), Le amiche della sposa, Bad Moms o Cattivi vicini 2 vi ho trovato un modo davvero liberatorio di parlare della femminilità. Ti sembrerà assurdo ma c’è dell’etica e persino della politica in questi film. E anche quando la storia verte su versanti nettamente meno comici, come in Elle, vi si trova comunque un modo nuovo di parlare dell’universo femminile. Vi è sempre più un maggior distacco dal primato del cazzo, inteso come pene, membro maschile. Vi è un deferire il primato ontologico della mascolinità alfa, a favore di un qualcosa di più complesso, con più sfumature. Finalmente c’è un freno all’oligarchia dei testicoli. Sausage Party non è da meno, anzi, qui vi è proprio una schizoide frenesia liberatoria. Forse, ad un certo punto, nel baccanale si preme troppo sul pedale (fa pure rima), avvitandosi quasi nel cattivo gusto. Ma ci sta, in un film come questo. Personalmente mi piace assai il volare alto mischiato al volare basso. Mi piace udire una scoreggia ad un seminario sulla finalità estetica in Hermann Cohen. Or bene, l’avrai capito se per tua grande sfortuna sei ancora qui a leggere, Sausage Party mi è piaciuto, e anche tanto. Ovviamente il consiglio è sempre quello di vederlo in lingua originale, le commedie in particolare giocano sul linguaggio. Quindi che dire, andrai a vederlo? Spero di sì. Spero ti piaccia. E se poi non ti piace va bene lo stesso, ti capisco, al limite puoi vendicarti addentando un bel paninozzo con dentro una grassa salsiccia. Un unico consiglio: stai a distanza dai sali.

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