ROOM di Lenny Abrahamson (2015) Per piccina che tu sia
La prima cosa ovvia alla quale pensare è il mito della caverna platonica, persone che nascono e vivono in un luogo (la caverna) e che quindi sono fermamente convinte che quel luogo sia il mondo. Per evitare quindi di tediare l’eventuale (e malcapitato) lettore con l’ennesimo pippone pseudo-filosofico tirato per i capelli solo per far vedere quanto ne so quando in realtà non so una beata mazza, propinerei un’immagine più popolare. Credo vi siano molti riferimenti letterari, pittorici e musicali ai quali aggrapparsi, io mi aggrapperei ad un celebre uomo che si aggrappa e che vive in totale simbiosi nell'edificio che lo ospita. Come scrive Hugo, Quasimodo – prigioniero fin dall'infanzia all'interno di Notre-Dame – è diventato di quel luogo non solo l’abitante ma anche il contenuto naturale. Della cattedrale, Quasimodo ne aveva come assunto la forma, vi aderiva, vi si mimetizzava. Notre-Dame era “la sua dimora, il suo buco, il suo involucro”. Anche il padre adottivo di Quasimodo, l’arcidiacono Claude Frollo, aveva il suo luogo: la misteriosa cella sulla torre. Sia Quasimodo che l’arcidiacono avevano il loro osservatorio privilegiato su Parigi, un punto, sulla vetta, ove contemplare la città e le sue guglie. Esmeralda, che io sappia, non aveva il suo luogo del cuore – eccetto forse la piazza ove si dava alle danze - ma anche a lei capita ad un certo punto la sua cella. Una stanza di sei piedi quadrati posta sotto i tetti di una navata, un bugigattolo al di fuori del quale si potevano scorgere i mille comignoli della città. Per l’egiziana il mondo, visto dall'alto, si trasformava e assumeva un carattere di quiete. Non vi è nulla di più dolce che abitare in alto, scrive Lucrezio nel Libro Secondo del De rerum natura; abitare nell'alto dei sereni templi della filosofia, la doctrina sapientum. Or bene, l’elogio dell’aristocratica solitudine contemplativa, l’egoistica serenità dell’esiliato che si bea dello scampato pericolo per chi, come lui, è abbastanza in alto da essere salvo. Cosa dire quindi di chi, potendo finalmente osservare la città dall'alto, non ne ricava gioia ma terrore? È questo il tema di Room? Magari no, ma volevo più che altro iniziare con l’ennesima cappellina atta ad allontanare definitivamente l’incauto lettore.
I protagonisti di Room non guardano il mondo nell'agio dell’altezza ma lo vivono al contrario nel sentirsi schiacciati dall'ampiezza del mondo. Stanno in basso. Il mondo esterno della madre e del figlio è circoscritto dall'abbaino sopra le loro teste, una finestra piccolissima che incornicia il quadretto di cielo che è loro concesso. Il mondo sottratto viene quindi, per amor di sopravvivenza, installato artificiosamente dentro la televisione. Le ragioni di tutto ciò? Bè, bisogna vedere il film. E Room è uno di qui film che sarebbe meglio affrontare senza saper nulla della trama. Per mia effimera fortuna, io il film l’ho visto – per l’appunto - scevro da informazioni di sorta. Non capivo cosa potesse celarsi in quella decisione o costrizione. Con il proseguire della vicenda cercavo di spigolare qua e là gli elementi chiarificatori. Per un bel po’ zampettava nella mia testa la possibilità di essere in un qualcosa tipo Black Mirror e questo geminava ulteriormente la mia simpatica curiosità. Cosa significa geminare? Ecco, anche questo dovrebbe dare adito a suspence, soprattutto in un paese come l’Italia ove l’italiano va sempre più a farsi fottere. Se si considera poi che io non sono italiano di nascita si evince come il tutto vada ancora più a puttane. Lenny aiutaci tu. E Lenny Abrahamson ci aiuta raccontandoci una storia da stanza. Storia tratta dal libro Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue, autrice contattata con una lettera di 10 pagine scritta dal regista stesso, così desideroso di fare di quel romanzo un film.
Or bene, sbirciando la filmografia di Abrahamson non mi pare che – fortunatamente – lui si sia discostato troppo dai suoi interessi. Sì, le vicende raccontate sono quanto di più distante l’una dalle altre ma non credo si faccia troppa acrobazia nell'individuare un qualche filo conduttore (mi riferisco unicamente ai film da me visti). A loro modo sia Garage che Frank raccontano di persone non propriamente inserite nella società che cercano uno spazio accettabile ove vivere. Uscire fuori ma senza corrompere eccessivamente la loro natura, natura troppo delicata per essere esposta. In Room vi è per forza di cose un voler uscire fuori a dare un’occhiata ma vi è, vi sarà poi, anche un corto circuito insito nell'eccesso di esposizione. Una esposizione legata alle proprie colpe e ai propri segreti. Il mondo esterno è il luogo dove c’è spazio per tutto e ciò costituisce un problema. Non che si debba tenere ogni cosa dentro, non che si debbano nascondere i problemi sotto il tappeto, però la contemplazione dall'alto di quel tutto libera anche – e troppo in fretta – le zone destabilizzanti. Tuttavia, Room ci insegna che non è sempre una brutta idea usare il tappeto come specchietto per le allodole. Non voglio giustappunto dire troppo sul film ma non mi posso esimere dallo scrivere che tutta quella sequenza di srotolamento (impreziosita dalle note del compositore Stephen Rennicks) sia probabilmente una tra le scene più belle dell’annata cinematografica 2015. Una scena carica di tensione, di stupore, di voglia di rivolgersi allo schermo tifando a gran voce. Cazzo sì! Attento!! Porca merda! Sì, adesso!!
Attenzione, non che il buon Lenny Abrahamson vada di mano pesante. Lui lavora, come si suol dire, in chiave bassa. In Room non troverete mai quel gusto del pacchiano emozionale che magari potete trovare il sabato sera guardando Maria De Filippi o la domenica pomeriggio guardando Barbara d’Urso. Cristo, no. Abrahamson non ci rovescia addosso tonnellate di zucchero ma si muove con circospezione. Per dire, ad un certo punto del film (non è propriamente uno spoiler) si sente un “Ti voglio bene”. Si poteva fare un primo piano, giocarsela con uno struggente campo e contro-campo interpellando tutti gli archi della Royal Philharmonic Orchestra. Il regista invece sceglie un’altra soluzione: sta a distanza, oltre la soglia. Da fruitore ho apprezzato assai tutto ciò. L’ho trovato estremamente rispettoso della storia ed estremamente rispettoso dell’intelligenza dello spettatore (non che io mi senta armoniosamente intelligente, anzi). Or dunque, quando imposti questo taglio al film, quando stai con i piedi ben piantati a terra, è normale e giusto che una sequenza con un tappeto ti faccia così emotivamente sobbalzare. Spalanchi gli occhi e il cielo esplode. Regia quindi fica alla quale si accompagnano due protagonisti che oserei definire pazzeschi. Brie Larson e Jacob Tremblay non potevano essere più in simbiosi di così. Come raccontato dal regista*, i due si sono trovati subito a loro agio. Lui, pieno di energie ed entusiasmo se ne stava a giocare con l’attrice anche quando veniva annunciato lo stop alla scena, ritrovandosi anche a domandare ad una Brie Larson ancora nel personaggio perché stesse continuando a piangere. Ottima intesa quindi, costruita nel tempo allo stesso modo di come i due si mettevano ad assemblare i LEGO prima delle riprese. Pare inoltre che il piccolo Tremblay ci tenesse particolarmente a parlare alla collega attrice della sua passione per Star Wars. Non a caso il giovanissimo interprete di Room, nell'eventualità che la sua carriera di attore non dovesse avere un seguito, ha già in mente un altro lavoro da fare da grande: lo Jedi**. La Forza è potente in questo giovane apprendista.
Brie Larson, invece, si è per me aggiudicata strameritatamente il premio come mamma dell’anno ma anche il giusto riconoscimento per una delle interpretazioni migliori viste al cinema di recente, ossia l'Oscar come miglior attrice è a buon diritto quanto mai dovuto. Una mamma (per fortuna non una mamma-amica) assennata e volitiva ma anche protagonista di un viluppo inquieto da dispiegare. Forse sensi di colpa, antinomie da metabolizzare, conflitti da chiarire. In Room, all'interno della vicenda principale, si riconoscono altresì zone in ombra. C’è l’evento cardine, la vicenda della stanza, e in controluce – come dopo uno sprimacciare – svolazzano sottili pulviscoli che non ce la raccontano tutta. Vi sono non risposte, una ripulsa che nello sciogliersi con un “Okay” o con un congedo silenzioso e agnostico ispessiscono ulteriormente il valore del film. Cosa vuol dire sprimacciare? Cosa significa ripulsa? Domande senza risposta. Room, un film con una stanza problematica ove, per distensione, mi preme dire che se ne La stanza di Marvin non c’era una foto di Brie Larson, nella stanza di Brie Larson c’è una foto di Marvin. Vale a dire l’amato Leonardo DiCaprio. Foto che fa la sua porca figura fino a quando non viene tappezzata da un disegno del giovane Jack. Parlando sempre di cose carine alle pareti, lodevole nonché apprezzabile la presenza di un album imprescindibile: Ok Computer. Tra l’altro, ora che ci penso, buffo come il riempire di immagini un muro non lo colmi ma lo ampli. Detta questa mia cazzata, forse ci sarebbe stata bene in quelle pareti anche Il povero poeta di Carl Spitzweg o, ancor meglio, La Casetta in giardino di Picasso; uomo quest’ultimo che – come ha detto una volta una mia insegnante di Storia dell’arte – sarebbe stato da alzare a schiaffi per via del suo simpatico caratterino. Non è invece da alzare a schiaffi Lenny Abrahamson, anzi. Uomo che con Room realizza probabilmente (ad ora) il suo miglior film. Un film bello corposo, che fa ridestare la mente assopita e che coinvolge e che resta lì anche una volta usciti fuori dal cinema o dalla stanza.
*http://www.theguardian.com/film/2016/jan/10/lenny-abrahamson-director-interview-room-brie-larson
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