REVENANT – REDIVIVO di Alejandro González Iñárritu (2015) Leo e Orso

Dopo aver girato (per me, a te magari fa schifo) uno tra i migliori film del 2014, ossia Birdman, il simpatico Iñárritu torna con un’opera estesa come la pastasfoglia di Nonna Papera e strabordante come un comizio di Matteo Salvini ad un comizio di Giorgia Meloni. 156 minuti per raccontare i 320 chilometri striscianti di Hugh Glass nel mezzo del South Dakota. Come orpello chiarificatore pongo l’attenzione a quelle volte in cui si corre in bagno in tutta fretta e, avendo di meglio da fare, ci si siede per sbrigar la spigolosa incombenza. Solo che poi la cacca non esce come dovrebbe uscire e allora tra il cercare di farla tutta e il cercare di raspar via i tarzanelli rimasti a penzoloni il tempo passa e tu capisci di aver perso davvero troppo tempo per una cosa per poteva esser decisamente più breve. Or bene, guardando Revenant ho avuto la medesima disturbante sensazione. Già, perché ai titoli di coda del film di Iñárritu ci si arriva sfiancati come il povero e miracolato Hugh Glass (cioè Leonardo DiCaprio). Solo che in questo caso l’orso che ti prende a schiaffoni è proprio il simpatico Iñárritu. E sono dei ceffoni dai quali si resta a tratti frastornati ma soprattutto a prevalere è il desiderio di raggiungere l’agognata meta, cioè la fine del film. E una volta giunti alla parola FINE la prima cosa che viene spontanea è tirar un bel respiro profondo, un nefando respiro che risoluto baritoneggia “Cristo, ce l’abbiamo fatta!”. Successivamente, mentre zoppicando si cerca di ritornare alla vita di tutti i giorni, il secondo interrogativo è “Ma era davvero necessario farlo così lungo?”. Okay, all'inizio è tutto molto fico, si entra immediatamente nel clou della vicenda e pensi fiducioso che stai per assistere ad uno spettacolo meraviglioso ma poi, lentamente, la storia rimane imprigionata su se stessa e l’unica cosa che tiene viva l’attenzione non è la scrittura ma la macchina da presa. Nel senso che ci sono dei movimenti di macchina oltremodo notevoli, molto belli, molto legati a quello che accade. Movimenti morbidi che pedinano con grazia l’azione del film. Sei a terra e poi sei sopra un cavallo e poi sei nel vuoto. Spettacolare. Il lavoro di regia è preciso, mai gratuito, mai a cazzo duro in mostra. Tutto funziona. Dai meravigliosi 360 gradi proposti all'inizio, al  fatidico incontro con l’orsetto, ai viaggi sul fiume Missouri (nella realtà il film è stato invece girato un po’ in Canada e un po’ in Argentina e un po’ qua e un po’ là). Peccato che alla fine di tutto si ha l’impressione che è questo bellissimo lavoro sull'immagine a far sopravvivere il film.
Non è la storia a coinvolgerci ma la sua struttura filmica e tutto ciò è un vero peccato. Revenant poteva essere molto di più, galoppando questi lodevoli movimenti di macchina il film poteva muoversi narrativamente e psicologicamente in territori ben più affascinanti e ben più coinvolgenti. Non a caso in certi momenti mi ha fatto pensare a Dead Man di Jim Jarmush e mi ha fatto pensare “Ma cazzo, perché non va in quella stessa direzione?!”. Revenant è lì che può spiccare il volo ma non ci riesce mai. Non arriva agli stessi toni cupi ed introspettivi nonché post mortem di quel formidabile filmone di Jarmush e non arriva neanche al fascino di un altro film esteso quale L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford. Il film di Iñárritu vive grazie alla bravura dell’Iñárritu regista ma non ha alla base una storia che lo porti su livelli altri e alti. Okay, qualcuno potrà oltremodo pensare che il regista messicano si è messo a scimmiottare Terrence Malick (uomo che si spera torni ad essere grande) ma non è che Malick abbia i diritti d’autore sulle immagini di foreste, foglie, raggi di sole che fanno capolino tra i rami, piante dei piedi di neonati. No, Alejandro non si finge Malick anche se – soprattutto nei momenti onirici – ci inciampa pericolosamente. Quello che vediamo è… Come posso dire senza risultare a sproposito? Mmm, quello che vediamo in Revenant è amabile originalità autoriale coadiuvata da Emmanuel Lubezki, direttore della fotografia che ha collaborato giustappunto con Terrence Malick e coadiuvata dalla luce naturale. E comunque come direbbe Lady Gaga: Don't call my name, don't call my name Alejandro. I'm not your babe, Fernando. Alejandro, Alejandro. Ale-Alejandro, Ale-Alejandro. Revenant, regia favolosa, storia che alla lunga rompe le palle e attori che se la cavano ben donde. Certo fare gli sputacchiosi e puzzolenti cacciatori di pelli non è che richieda chissà quale solenne lavoro attoriale ma alla fin fine il loro sembrare dei rozzi beoti funziona. E alla domanda se questa volta DiCaprio ce la farà a prendere l’Oscar la risposta potrebbe essere “Ha fatto di meglio” [n.d.r. - Codesta “recensione” risale ai tempi dell’uscita del film e ancora non potevo sapere dell’Oscar a Leo]. Nel senso che in Revenant lui non è che sia il top, o perlomeno il ruolo non gli permette moltissimo. Sì, perlopiù grugnisce ed è bravo a sporcarsi qua e là ma non è che faccia grandi cose.
Diciamo anche che viene superato – oserei dire - a mani basse da Tom Hardy, un personaggio il suo che è molto più tormentato. Molto più complesso. Nascosto tra i peli e la sporcizia, Tom Hardy riesce a parlarci in modo assai convincente con le palle degli occhi. E qui mi viene da pensare sicuramente a caso alla sua maschera di Bane ne Il cavaliere oscuro - Il ritorno nonché alla maschera di Mad Max: Fury Road nonché al suo dover stare unicamente seduto nell'oltremodo notevole Locke. Insomma, anche se lo si vede poco, Tom sa comunque come apparire al meglio. Leo invece fa quel che può, fa quello che il ruolo gli permette. Striscia, si bagna, si infila in cunicoli e fa tante oltre cose fisiche (ricordandosi per giunta de L’Impero colpisce ancora) ma onestamente più di tanto non puoi spingerti se il copione, nelle battute più intense, prevede un qualcosa tipo: “Gghhnng, mfffhh, grrrgh, ghhhooff”. Come noto il film riprende una vicenda realmente accaduta, quella del pioniere Hugh Glass. Un uomo del XIX secolo che ad un certo punto della sua vita si è unito al gruppo di cacciatori di pelli guidato dal generale Ashley. Ciò che ha reso celebre Glass è il suo esser stato attaccato – nel lontano agosto 1823- da un grizzly, una mamma orsa che quasi quasi lo spediva nel paradiso degli orsi. Il film amplia la storia originale e la trasforma in una storia di vendetta. Nel senso che sì, Hugh Glass ha avuto per moglie una nativa Pawnee e sì nella realtà sono esistiti i personaggi di Fitzgerald (Tom Hardy) e Bridger (Will Poulter, indubbiamente convincente) ma non la storia del ragazzo indiano e quindi i moti vendicativi han avuto nella vita reale un carattere meno Appena ti trovo ti rompo il culo. Diciamo che allo Hugh Glass originale ciò che premeva era, oltre a cercare di non morire, il riprendersi le armi rubategli.

Il Glass di Leonardo DiCaprio si trova invece in ben altre questioni affaccendato, il tutto all'interno di un mondo bestiale. Un mondo dove uno come me non se la sarebbe cavata per niente bene. Avrei avuto una morte probabilmente stupida, accovacciato nella foresta, cagando. Una freccia sul culo e poi un ascia sul cranio. Glass invece si muove con sapienza e coraggio in questo universo di cacciatori e prede, di interessi propri e disinteresse per tutto ciò che è altro, dalla natura ai nativi. Un mondo riassumibile nell'espressione squisitamente francese On est tous des sauvages, un’onesta contrapposizione ai moti unificanti di questi tempi. Revenant quindi, la storia di un uomo che poteva anche farla più breve che tanto non è che la sostanza cambiava con la durata. E invece no, eccoti un film lunghissimo (le riprese sono durate un anno) e molto drammatico. Così drammatico che in certi punti mi ha fatto anche sorridere, cosa che non credo fosse negli intenti del regista. Il fatto è che alcuni passaggi sono così carichi da apparire quasi parossistici. DiCaprio si lancia in espressioni facciali sul filo del demenziale, manco Lady Gaga bazzicasse da quelle parti. Or bene, in termini di film lunghetti con gente che va a cavallo mentre fuori tira fresco Revenant va a braccetto con The Hateful Eight, con l’unica differenza che il tarantolato ha dalla sua una scrittura molto più carnosa mentre nel film di Iñárritu la carne è cruda, poco saporita e – purtroppo - scarsamente nutriente.

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