RECENSIRE di Massimo Onofri (2008) L’idraulico-pompiere si è fatto la doccia sul lavandino
Ad un certo punto, mentre dovevo capire se acquistare un ovetto Kinder per maschietto o uno per femminuccia o entrambi o nessuno mi sono fatto distrarre innanzi alla cassa da un corposo interrogativo: da un punto di vista critico o di critica, o comunque dal punto di vista del punto di vista di un critico letterario l'impersonalità è un traguardo di onniscienza al quale si aspira? È in effetti l'apogeo dell'egotismo? Ossia è la massima, marmorea e venosa erezione possibile per un critico? È la tessitura seminale di una recensione-non-recensione? Be', io non lo so. Nel senso che da poco ho realizzato che può in effetti esserci e vi è una professione che confeziona critiche. Nel senso che non avevo mai realizzato che un critico dovesse essere unicamente critico. Questo perché mi limitavo a leggere senza curarmi troppo della mano alla base. Non la mia mano ovviamente ma quella dell'uomo che scrive ciò che io, essere umano, leggo. A riguardo o in mia difesa vi è anche il fatto che l'unica critica che mi abbia sempre interessato è quella cinematografica. Una forma di critica, credo, meno "professionale" di quella letteraria. Nel senso che mi viene difficile pensare ad un critico cinematografico che decida di reputarsi uno scrittore solo perché scrive critica. Mentre questo, ossia il decidere di reputarsi uno scrittore solo perché si scrive critica, accade nel critico letterario.
Una figura che oltre alla passione per la lettura nutre anche la passione di un sé che deve dire. Come giustamente scrive il critico Massimo Onofri*, il critico letterario è colui che "non può fare a meno di scrivere, una volta letto"; ossia il critico legge un libro e poi DEVE scriverne qualcosa. Ma questo - a mio modo di vedere la faccenda - lo differenzia anche dalla figura dello scrittore il quale non può fare a meno di scrivere a prescindere. Il critico letterario ha bisogno di scrivere ma è un bisogno distante anni luce da quello più "insano" dello scrittore propriamente detto. In linea di massima (e anche di Massimo, ha ha ha), scrivere non è una gioia ma è una necessità al pari di quella del recarsi in bagno. Una necessità che nel critico si alimenta leggendo libri mentre nello scrittore si alimenta leggendo sé stesso. Leggendo ciò che dentro di sé è ingombrante. Un critico tout court (o tutto accorto) mi viene quindi da pensare non è uno scrittore; certo il critico è al servizio di sé stesso e delle proprie verità* ma questo non è abbastanza per farne uno scrittore: anche il mio gatto Mao è al servizio di sé stesso e delle proprie verità, specialmente quando mi omaggia con dei topi preventivamente uccisi ma dubito che si consideri uno scrittore. Perché? Perché una volta estratto "il nocciolo razionale dal guscio mistico"* ciò che sale in superficie, quel lato oscuro (o quella chiarezza contratta *), è altro da quello dello scrittore. La domanda or dunque è: se un critico diventasse - o meglio, si sentisse - scrittore cosa (ne) sarebbe allora (di) uno scrittore? A che pro distinguere il recensore dallo scrittore? Se lo si facesse non si cadrebbe in quel mondo coccoloso e colorato di egotismo? Se lo si facesse non avremmo una forma tutta speciale del do ut des? Un 69 con sé medesimi. Difficilmente un critico cinematografico vorrebbe definirsi regista. Epperò* (in loco a questo pensarsi scrittore) il critico letterario ha probabilmente maggiori sfumature da celebrare a seguito della cura e della dedizione alla lettura.
Da qui magari un'altra sostanziale differenza tra critica di un libro e critica di un film. La fruizione di un libro e la fruizione di un film. Dall'oggetto guardato quindi differisce una professione-vocazione? Un inedito modo di intendere Schrödinger? Forse. Non lo so. Quale ovetto Kinder devo acquistare? Se mangio amaranto cago arancione? Tutto questo complica il mio modo di vedere il mondo e di per sé o altresì mi viene persino difficile avvistare nella critica letteraria un genere letterario. Allo stesso modo come mi viene difficile scorgere nella scrittura una scienza, come sosterrebbe Barthes se fossimo ancora nel 1966. Non so, mi pare il tutto una apologia, un trovare una collocazione laddove non ve ne sarebbe neanche bisogno. Un bisogno di identità su una identità già data: sei un critico, perché vuoi anche essere scrittore? Non è già bello e sufficiente così? Si tratta quindi di fame di senso? O si tratta più semplicemente del mio non aver capito pressoché nulla? Sospetto che una possibile via possa essere la seconda opzione. E sì, so bene di essere una sega; un brufoletto che i problemi li risolve scolandosi litri di birra. E sì so bene che questo mi rende un pessimo cliché, dico, non i brufoli (che non ho mai avuto tra l'altro) ma la birra. Ad ogni modo, nel mio pessimo me or ora tiro le somme, solo così poi potrò capire cosa non mi è chiaro. Bene, è scritto che il recensore è un lettore che scrive di ciò che legge o che legge solo per scrivere. Il prolungamento del proprio leggere su ciò che altri hanno scritto. Ma se è vero or dunque e direi anche ben donde che la critica letteraria ha a che a vedere con l'invenzione*, quell'invenzione è innanzitutto altrui. Volendo prender per buona l'idea che un critico è uno scrittore, si potrebbe dire che il critico è uno scrittore che prende ispirazione e aspirazione da altri scrittori per scrivere di ciò che quegli scrittori hanno scritto. Sono andato troppo veloce? Ripeto in modo schematico:
A) Il critico è uno scrittore.
B) Uno scrittore che scrive dopo aver letto un libro.
C) Il critico è uno scrittore che scrive del libro che ha letto o che scrive ispirandosi ad esso.
In tal guisa, ha ancora senso parlare quindi di critico come scrittore? Il critico quando scrive parla sì di tutto (nel senso che non è uno specialista e men che mai uno attaccato a quell'unico ramo che conosce benissimo), il critico è un onnivoro che parte comunque da una lettura di una scrittura altrui. Una sorta di simbionte creativo. Appare strano - a me almeno - osservare il modo in cui si fa di recensore un pronome di scrittore. Per far questo si fanno anche complesse giravolte atte a far del recensore uno scrittore. Ossia, si trasforma lo scrittore in scrittore-scrittore e il recensore in scrittore-lettore**. Meraviglioso. Ma se lo scrittore diventa scrittore-scrittore e il recensore diventa scrittore-lettore, chi poi sarà mai o è soltanto uno scrittore? Come a dire che io non sono un uomo ma un uomo-uomo, questo per distinguermi senza ombra di dubbio dall'uomo-donna pur conservando in seno (non solo alla donna e al suo seno) l'appellativo di uomo. Una abnorme carta bibula. Come annota Onofri, per Emanuele Trevi i libri si leggono con il batticuore. Con il batticuore o con la saggezza. Considerazioni come queste mi fanno ancor di più pensare a come sia affascinante - in qualche modo - la figura del critico. Cioè, io sul serio non pensavo vi fosse tutta una storia dietro la critica letteraria. Vi è un mondo, vi è un mondo su tutto.
È affascinante l'immaginarsi qualcuno che di professione legge libri. Oggi pare per giunta una cosa eccezionale, il leggere. Allo stesso tempo penso anche che il gusto della lettura vada un pochetto a declinare con l'atto del recensire. Ci ho fatto caso quando ho dovuto - per esercizio - scrivere la recensione di un libro. In quella mia lettura vi era sì la lettura ma era una lettura che si vestiva troppo di me. Leggevo, prendevo nota, evidenziavo. C'era già un me eccessivo nella lettura. Ero troppo implicato. Leggevo e rimuginavo: (io) devo scrivere questo, (io) devo riportare questo aspetto, (io) devo per forza dire questa cosa, (io) devo devo far notare questo passaggio. Porca merda. No, non ho pensato (io) Porca merda ma ho semplicemente traslato il mio leggere. Il libro non era più una questione da batticuore (come dice Trevi) ma una questione di battitura. Avrei letto con maggior trasporto se non avessi dovuto star lì ad analizzare il libro da un punto di vista di laboratorio, da un punto di vista scientifico. E da qui Barthes e la scrittura come scienza ma anche - forse - Contini e la critica scientifica. Questa cosa con il cinema non mi succede. Non guardo un film pensando poi di doverne scrivere, anzi, all'inizio un pochetto sì. Ma il trasporto cinefilo prende subito il sopravvento. Mi guardo il film per il piacere e il gusto di guardarmi il film. Se poi dovrò scriverci qualcosa, ben venga. Insomma, non potrei mai fare il critico e manco lo scienziato. Infatti non sono un critico. Sono uno spettatore, mica uno spettatore-scrittore.
Su questa linea (quale?), sullo scrivere del recensore, Onofri ci ha scritto* un capitolo intitolato Scrivo, dunque sono. Io direi (parlando sempre di scrittori-lettori) leggo, dunque sono, scrivo dunque esisto. Ossia, nel critico ciò che viene prima è la lettura. Legge, dopo scrive e quindi si manifesta. Lo scrittore invece si manifesta nel suo scrivere. Lo scrittore esiste, è nella scrittura. Ci sta dentro, ci scopa, viene, vi è, schizza ovunque. Non vi è altro prima. Epperò*? Niente, non vi è nient'altro. Sì, Borgese e anche Onofri sono convinti che il critico è uno scrittore. Chi sono io per obiettare ciò? Nessuno, e infatti lo obietto. L'invadenza, come direbbe Onofri, è certo presente in ognuno di noi. In alcuni felici ed entusiasmanti casi può ben donde valere la formula dell'artista che si aggiunge ad un altro artista, ma da qui al vedere uno scrittore-lettore che si aggiunge allo scrittore-scrittore per poi partorire la figura dello scrittore da quella del recensore... Non è necessario. Come dicevo, è già di per sé affascinante l'esistere di una persona che legge libri e che di questo ne fa una professione. Diamine, non penso come fa invece Pietro Citati, che la critica letteraria sia una cosa così modesta. Ma al contempo non c'è bisogno, come fa Garboli, di creare nuove figure dell'immaginario quali lo scrittore-scrittore per permettere la venuta dello scrittore-lettore, ossia del critico come scrittore. Il critico non è uno scrittore, il critico è un critico. Non è mica un insulto, anzi. L'idraulico mica è un pompiere e giustamente non si rammarica di questo, non sente il bisogno di generare la figura dell'idraulico-pompiere e di conseguenza quella del pompiere-pompiere.
Detto questo (cioè nulla), come si può interpretare quanto ho appena scritto? Questo imbarazzante e non richiesto polpettone può esser visto come la recensione di Recensire di Massimo Onofri? O è una fantomatica recensione non-recensione? Faccio parte di un genere letterario o ne sono totalmente fuori? Sono anche io uno scrittore-lettore? Ho scritto del libro di Onofri, libro (che ora tengo sulle ginocchia) ammantato da segnalibri o da cose che mi servono ad evidenziare. Non si può dire che in qualche modo non l'abbia recensito. Ma non si può dire a tutti gli effetti che io l'abbia recensito. Eppure le (mie) considerazioni a riguardo han tutte in sé un commento al libro. Nulla di quello che ho scritto è nato non al di fuori del libro stesso. Ho scritto dopo aver letto, ho scritto-letto. Non ho adottato, per dirla alla Onofri*, uscite di sicurezza. Nel senso che non ho usato Onofri per parlare di altro. Per parlare in modo eccessivo di me. Ho scritto-letto del libro letto, sono stato sul pezzo. Certo, non escludo di essere additato di stultitiam loquacem o come direbbe Cicerone di stupidità eloquente giacché meglio una saggezza priva di eloquenza che, per l'appunto, una eloquente stupidità ma tant'è. Non potevo esimermi dall'esternare e qua il bisogno di scrivere dopo aver letto ci sta a pennello. Non tanto per ricostruire il caos del cosmo* ma perché - e anche qui Cicerone ci gigioneggia - tutte le volte che parliamo in pubblico viene dato un giudizio su di noi; cosa che è una banalità interessante ma visto che l'ha detto il Cicerone del De oratore fa abbastanza fico ribadirlo. Il pubblico or dunque, i volti e le reazioni del pubblico. Da qui me. Ho non-recensito un libro di un recensore intitolato Recensire. Ma anche, ho non recensito da non-scrittore il libro di uno scrittore-lettore o critico-scrittore intitolato Recensire. C'è un eccesso di cubo in tutto questo, anche un eccesso di quadrato. Un eccesso di culi? Riportiamo allora e ben donde tutto al rettangolo, ossia al liber, il noto sostantivo latino. Dove si trova il liber? In biblioteca? No, sotto la corteccia degli alberi. Con un'abile lavorazione - classe 3000 a. C. - non dissimile da quella della preparazione delle patate lesse si ottiene poi un foglio, il cui nome per esteso è (era) cartha. Il foglio dal liber o il foglio dal libro (nome botanico). Una volta ottenuti abbastanza fogli è più che sufficiente unirli e arrotolarli all'umbilĭcus, cioè non l'ombelico ma un blando bastoncino. Da cotale avvolgere (volvo) i fogli ecco pronto un bel rotolo di libro, il volume. Al lettore non resta ora che lasciarsi deliziare in un luogo tranquillo e devolvĕre ad umbilĭcum. Leggere il libro fino alla fine, anche senza aver preso parte a scuole di lettura creativa, come suggerisce non in torto Onofri. E nel mentre? BÈ, nel mentre mangiarsi l'ovetto fino alla fine. Ovviamente.
*Recensire - Istruzioni per l'uso di Massimo Onofri (collocazione in biblioteca 801.95 ONO)
**Scritti servili di Cesare Garboli
Per altre esperienze onofriane rimando a Passaggio in Sardegna.
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