QVANDO C’ERA LVI di Daniele Fabbri e Stefano Antonucci (2016) Fascetta nera

Tempo fa, a seguito di una involontaria campagna pubblicitaria attuata da un camerata di Casa Pound, quel gentil pueblo italico non avvezzo a cose con cose disegnate dentro è venuto a conoscenza di Qvando c’era Lvi, firmato da Daniele Fabbri e Stefano Antonucci. La prima parte della vicenda narrata nel fumetto è apparsa in edicola ad aprile, la quarta e ultima uscirà invece tra un anno. A meno che tu che leggi qui non sia un uomo del futuro e quindi già aprico alla conoscenza in toto (tipo nuovi episodi di ignoranza fascista), questo mi porta or ora a commentare – con la solita estenuante non-recensione – la cornice del volume. Oddio, dire volume è forse un pochetto esagerato giacché sono poche pagine al costo di 3 euri (che di ‘stì tempi sono tantissimi) ma ne vale lo stesso la pena. Cosa intendo con "commentare la cornice del volume"? Precisamente non ne ho idea ma la frase, buttata lì, sembra affascinante se consideriamo i raggi catodici. E quindi ecco il volume che dà avvio alla rinascita del Duce, ossia una delle teste più esposte nelle camerette delle camerate fasciste. Un feticismo alfa, un virile orpello mascellare. Quando c’era Lvi narra infatti il tentativo, da parte di un manipolo di casapoundiani, non di salvaguardare delle tartarughe marine (come si potrebbe facilmente pensare) ma bensì di riportare in vita Benito Mussolini. Or bene, nella mia totale astrattezza, devo confessare che il fumetto mi ha posto innanzi ad una questione alla quale io non avevo mai pensato: il corpo di Benito. Credevo che Mussolini si fosse dissolto in quel di piazzale Loreto. Disfattosi dall'italica folla, scomparso nel cunicoli spaziali come un Sith sconfitto. A seguito della lettura del fumetto ho quindi deciso di informarmi, ossia mi sono alzato dal letto e sono andato su internet. Ho scoperto che il corpo non si è dissolto nell'infinitesimale quantico, non è deflagrato in una increspatura di stringhe. Il dux non è più in lux ma è comunque ancora in quiddità sulla terra. Nel senso che è sepolto nel cimitero di Predappio in Emilia-Romagna. Luogo di culto immagino. San Benito fammi la grazia, poi un bacetto sulla croce celtica, una carezza al nostalgico tatuaggino, un salutino con il braccio teso e un moto di nostalgia per i bei tempi andati. Quelli di quando i treni arrivavano in orario. Quando c’era lui. Prima di dire due cose due (o forse praticamente nulla) sul fumetto abilmente pubblicizzato dal camerata di Casa Pound, vorrei tentare di far luce sul contesto del duce ma anche – per l’appunto – provare a comprendere perché il camerata di Casa Pound ha voluto pubblicizzare il tutto versando sui tavolini dello stand degli autori di Qvando c’era Lvi un bicchiere di Coca-Cola. Perché proprio la Coca-Cola? Perché non una Fanta o una Pepsi? Nell'avvicinarmi all'individuare le oscure ragioni di tutto ciò ho or dunque deciso di intraprendere un piccolo viaggio nel tempo. Un viaggio altresì circoscritto nell'eco del perché l’Italia è stata fascista. Mi è quindi fulmineamente balzato nel cervellino Mead. 
George Herbert Mead, un uomo per il quale la psiche segue la massa, questo perché al linguaggio si fonde l’interazione, una interazione che per essere tale deve avere coscienza dell’esser compresa. Quindi un carattere empatico dell’interazione. Non ci stai capendo nulla? Provo a spiegarmi così: stai facendo la spesa al supermercato. Hai preso dei pomodorini, una cotoletta e una birra a buon prezzo (sull'etichetta c'è scritto Bräu e Original Germany e a te va bene così). Ti stai apprestando insomma alla tua consueta serata in solitudine e pantofole. Ad un certo punto ti volti e mi vedi in coda alla cassa 4. Non ci conosciamo ma i nostri bulbi oculari si incrociano ed io, sorridendoti, sollevo la mano e ti mostro il mio dito medio. Questa è una interazione; tra di noi si è creato un legame. Entrambi siamo a conoscenza del messaggio lanciato da un dito medio sollevato. Cioè, inutile che ti mostri il dito medio alzato se tu ne ignori il significato. Inutile mostrare il dito medio alzato al gattino che ti si sta arrampicando sulle gambe, lui proverà lo stesso a proseguire nella salita e anzi, magari cercherà proprio di raggiungere il tuo dito. In parole povere, anche nel mandarsi a ‘fanculo vi deve essere empatia e partecipazione. Io devo capire se tu hai capito e viceversa. Il Sé si erge per Mead in questo scambio. Io sapendomi nell'altro, nell'altro che mi riconosce e mi comprende, sviluppo il mio Sé. Grazie all'altro, alla nostra interazione linguistica, io posso pensare a pieno me stesso. L’altro, il sociale, è – diciamo – lo specchio che mi permette l’autocoscienza. Il Sé, per Mead, è or dunque un prodotto di massa. Facile da qui vedere il pericolo insito nel sociale (massa), il potenziale e totalitario assorbimento della coscienza individuale nelle ragioni della maggioranza. Qui infatti vi è (o io vedo) l’esegesi cieca e divinatoria nei confronti del Sé supremo, il leader fattosi sociale. L’unica via, l’unica luce, l’unica mandibola, l’unico balcone. Dal fascismo si può comunque uscire, in qualche modo. Ecco allora il leader decaduto e decagato, calpestato dalla brutalità del popolo deluso e impoverito. A tal riguardo ora il nostro caro Mead annuirebbe dicendo “Sì. È andata così perché il fenomeno sociale non è di certo deterministico!”. Non vi è il predominio di un fenomeno sull'altro. Anche qui abbiamo una interazione, interazione che trova il suo auriga nell'Io. Già, perché a quanto pare nel Sé vivono il Me e l’Io. La famiglia si allarga. Il Me tende alla baldoria e quindi si nutre di birra e di sociale. L’ Io invece è meno suggestionabile, l’Io è il campanello di allarme innanzi ad ogni pericoloso condizionamento sociale. L’Io non ha visto un capo carismatico là sul balcone, l’Io ha visto una disgrazia. Il fascismo, direbbe Mead, è un Me senza un Io. Or bene appare quindi senza dubbio primitivo aver a che fare ancora oggi con il fascismo; aver a che fare con questo virile braccio teso in avanti, come ad accertarsi delle condizioni meteo o come un atto di speranza nell'invocare una minchia lunga così. Una chiamata a raccolta di tanti enormi cazzi con la capoccia già rasata di natura. Ma non vi è soltanto il desiderio di avercelo lungo quanto un braccio. Nello spirito fascista vi è altro. Credere, obbedire, combattere. Onore, razza, ordine. Sasso, rete, forbice. Evaporato l’afrore fascista, più che al credere, obbedire, combattere il popolo italico si è concentrato sul sopravvivere. E sopravvivere significa farlo a prescindere dall'essere in ordine: quando devi scappare non ti metti a cercare la cravatta buona.
Ecco quindi che tra il 1945 e il 1960 un buon 50% di italiani arriva in Francia. E vi arriva non per partecipare agli europei di calcio, vi arriva per soggiornarvi clandestinamente*. Al primo scaglione ne segue un altro, un 90% dei familiari di quelli già insidiatesi, anch'essi irregolari o, come direbbe Matteo Salvini con una sprezzante smorfia, clandestini. Anche il nostro beneamato Matteo (faccia di babbeo, come lo chiama mio nonno) avrà avuto qualche antenato emigrato. Magari tra quelli facenti parte degli oltre 400 mila emigranti l’anno durante l’esodo tra il 1900 e la prima guerra mondiale. Clandestini in cerca di una vita, come si suol dire, degna di essere vissuta. Giovani che fuggivano dalla leva militare ma anche ricercati dalla polizia, anarchici, uomini e donne che con la scusa di andare a comprare le sigarette scappavano dall'Italia. Usanza che si è protratta. Siamo alla fine della seconda guerra mondiale e sì va bene credere, obbedire, combattere ma va anche meglio inscatolare, prendere e scappare. Soprattutto per chi aveva aderito al fascismo. Ecco quindi altri gruppi di clandestini, i clandestini fascisti. I fascisti che fuggivano in Argentina e Brasile. Una clandestinità durata poco, grazie all'amnistia del 1946 firmata da Togliatti in favore dei prigionieri fascisti. Fascisti che potettero adesso godere di un regolare passaporto a sollecitarne la fuga in Sudamerica. Fuga cospicua giacché “nel dopoguerra i fascisti italiani erano la maggioranza dei profughi politici per l’America del Sud”. Altro che fascisti su Marte. Italiani clandestini, fuggiaschi. Così come lo erano stati gli ebrei in fuga dalle leggi razziali del 1938. È proprio vero che chi la fa la deve aspettare. Peccato che alla massa fascista in esodo sia andata meglio. Così come per Kant la ragione non ha tribunale oltre sé stessa, anche il fascismo non è stato messo dall'Italia sotto processo. Non vi è stata alcuna Norimberga per i criminali fascisti. Ma ci sarebbe stato davvero bisogno di un processo? Perché mai? In fondo “Mussolini non ha mai ammazzato nessuno. Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino”, come sostenne nel 2003 Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio. Cerco or ora di chiarirmi il concetto di vacanza insito nella mente di papi Berlusconi.
Ad un certo punto le isole destinate al confino iniziarono ad essere sature. La stagione vacanziera stava andando alla grande, i gestori non potevano lamentarsi. Solo che la domanda aveva iniziato a superare l’offerta; le isole di deportazione erano piene. In 17 anni di creazione di villaggi vacanza si contarono 12.330 confinati**. Che fare se non spostarsi sulla terraferma? Ecco allora sorgere con enorme orgoglio il primo campo di concentramento italiano. Siamo a Pisticci ed è il 1939. “Il lavoro dei confinati, che era di tipo edile, agricolo o artigianale, aveva per finalità la costruzione delle infrastrutture della colonia stessa”. Si costruiva per accrescere il dove si era, si costruiva su dove si era. Col tempo quel ghetto per gli antifascisti (ove, stando alle parole del capo della polizia, alla bonifica agraria si univa quella umana) divenne, con una delle più classiche eterogenesi dei fini, un incentivo all'antifascismo. Nel campo di Pisticci i bonificati acutizzarono infatti il proprio disprezzo per la dittatura. Poco dopo, all'antifascista villeggiante si unì il turismo estero. Nel giro di un anno (giugno 1940) i villaggi vacanza fascisti aprirono finalmente anche agli stranieri nonché agli ebrei, quegli ebrei che non avevano fatto in tempo a fuggire dall'Italia dopo le leggi razziali (nel maggio del 1941 si possono contare nei villaggi vacanza 2700 ebrei). A guardare l’Archivio Centrale dello Stato, il ministero dell’Interno aveva fatto internare “A quattro mesi dall'ingresso in guerra” 5624 civili, tra italiani e stranieri. Numero che all'inizio del 1943 raggiunse quota 18.862. Vacanziere più, vacanziere meno. Un caso interessante, per quanto concerne la stagione turistica fascista, è il capitolo Jugoslavia e i suoi territori caduti nel 1941 nelle mani dell’esercito italiano. In Jugoslavia l’idea di villeggiatura insita nello spirito fascista rientrò nel “quadro di un’occupazione violenta ed esplicitamente razzista che non escludeva l’incendio dei villaggi e la fucilazione di ostaggi civili”. L’ideona di Mussolini, coadiuvato dal generale Mario Roatta (Marione per gli amici), era quella di praticare un taglia e incolla. Ossia svuotare la parte slovena dagli sloveni  (cioè la Provincia di Lubiana fatta annettere al Regno d’Italia) per poi riempirla con la più nobile razza italica. Me lo immagino Benito, lì davanti alla cartina geografica stesa sul tavolo. Butta via gli omini sloveni e ci mette al loro posto gli omini italiani. Fatto questo appoggia gloriosamente i pugni sui fianchi e issa al cielo l'impavido mento, totalmente incapace di prender atto delle proprie problematiche psichiche. Or bene, si vanno a siglare le direttive per la Provincia di Lubiana. “Progetto di epurazione della città e provincia di Lubiana” da “elementi sovversivi” quali i senzatetto, gli studenti disoccupati, gli studenti universitari, i maestri, i profughi, gli operai. O più semplicemente, come ebbe a dire il generale Mario Robotti, la messa al bando del nemico più nemico di tutti: “l’intelligenza di Lubiana”. Non è qui difficile comprendere perché per il fascismo il nemico da combattere fosse – e rimane – l’intelligenza.
I campi per gli internati slavi si caratterizzavano per la “cronica carenza di cibo”, il sovraffollamento, le condizioni igieniche e sanitarie estremamente precarie, l’impossibilità di procurarsi un vestiario adeguato al clima. Nei villaggi vacanza per gli slavi persino il dormire rappresentava un problema giacché ci si doveva arrangiare al meglio all'interno delle tende, abituandosi al poco confortevole terreno. Nel noto campo di Arbe (un’isola della Croazia) il conteggio dei morti si fece approssimativo per l’abitudine di chiudere nelle bare più di un corpo. Tuttavia una stima attendibile conta 1436 morti. Arbe rappresenta forse il caso più eclatante ma di morti (uomini, donne, bambini, neonati) ve ne sono stati in abbondanza anche negli altri campi, anche nei campi edificati in Italia. Quei campi vacanza come quello di Monigo - nei pressi di Treviso - da dove poi, come testimoniato da un primario anatomo-patologo, si arrivava tardi in ospedale, “ormai era troppo tardi: si è riusciti a salvarne pochi, sono morti anche bambini di un anno, di pochi mesi, vecchi ottantenni, persino uno di 92 anni”. Villeggianti morti - lasciati morire - letteralmente di fame. A scanso di equivoci il comandante del XI Corpo d'armata Gastone Gambara ci tiene a specificare scrivendo di suo pugno: "Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo". Alessandra Kersevan nel suo Lager Italiani riporta, tra le altre,  la lettera di una detenuta: «Se avessi saputo ciò che mi attendeva, avrei ucciso prima i bambini e poi me stessa, perché non è possibile sopportare ciò che sopportiamo ora». Per chi sopravviveva, come in ogni soggiorno fascista che si rispetti, abbondavano poi i momenti irrisori, quelli tipici da villaggio vacanza. Lo staff della II Armata aveva infatti decretato il cosiddetto saluto dell’internato. Ossia era d’obbligo per l’ospite del campo di concentramento fascista (poco importa se malato di tisi o di dissenteria o se ricoperto di feci) “salutare romanamente tutti gli ufficiali, sottoufficiali e militari di truppa italiani”. Ossia quel conclamato potessi avercelo così lungo che possiamo vedere anche oggi ad opera dei cameretta di Casa Pound o degli altri gruppi in polo pelate e basette tirate pronti magari ad omaggiare virilmente, con quel saluto-invocazione, i caduti della Repubblica di Salò al campo 10 del cimitero Maggiore a Milano. Un saluto ed una fede che resistono in seno ad una ignoranza mai veramente diagnosticata. Restare attaccati alle mammelle di Mussolini è or dunque conseguenza di una maturità culturale mai raggiunta. Sì rimane in cameretta Pound a smanettarsi innanzi al mandibolone solo perché vittime di un complesso edipico mai assorbito. E non vi è ben donde di che stupirsi di ciò giacché l’Italia, in buona e allucinante sostanza, non ha mai veramente fatto autocritica. E ancor peggio non ha mai messo sotto processo i propri criminali fascisti. Con un passato così sottratto è normale quindi che Gianluca Iannone (il bonario Babbo Natale fondatore di Casa Pound) rivendichi lo stato di diritto a seguito dell’immigrazione che priva, sottrae, isterilisce. Così come è normale l’inneggiare al ruspante Salvini che spegne i sorrisi ai clandestini. Insomma, non semo rasisti o senofobi ma stì negher qua a casa loro che noi semo cristiani per bene diobono. Mica stì tunisini, marocchini, cinesi. Buona Padania a tutti, Padania libera. E vai con la sagra della salsiccia e il rutto libero, tutto bello padano, bresciano e lumbard. Insomma, attorno a ciò aleggia come una scoreggia padana una totale inettitudine didattica. E quindi un processo metabolizzante che vive grazie ad un processo mai avvenuto. Un processo ai crimini del passato. 
L’impunità ha generato un bimbo stolto, pericoloso ed ignorante. Non c’è da stupirsi di un presidente del Consiglio che sbotta il suo “Mussolini non ha mai ucciso nessuno”. Non c’è da stupirsi se ogni anno spunta in edicola un calendario del duce. Non c’è da stupirsi di una mostra al MuSa di Salò sul culto del duce, “arte del consenso nelle raffigurazioni di Mussolini”. Cotali frasi e cotali eventi sono il frutto di un lascito che ha soffocato sul nascere una qualsivoglia coscienza civile. Come scrive Filippo Focardi nel suo Il cattivo tedesco e il bravo italiano, “Fra il 1948 e il 1951 venne meno qualsiasi possibilità di una «Norimberga italiana», di portare cioè in giudizio coloro – militari e civili – che erano stati accusati di crimini di guerra”. Seguendo sempre il libro di Focardi (che qui cita lo storico britannico Tony Judt), l’Europa vive di una memoria maledetta, una “eredità maledetta” fondata sull'oblio. Il mancato ricordo di aver collaborato con i nazisti e con i fascisti. In questa memoria mozzata rientra anche l’Italia. Quell'Italia che oltre ad aver combattuto a fianco della Germania nazista ne è stata ispiratrice: Mussolini non si è ispirato ad Hitler. È stato Hitler ad ispirarsi a Mussolini. Il Mussolini del nuovo ordine mediterraneo, di quell'Italia fascista che manda oltre 400 mila soldati in Etiopia per conquistarla a suon di armi chimiche (1935), di quell'Italia fascista che va in Spagna a soccorrere Franco inviandogli 70 mila soldati. Quell'Italia che va ad occupare la Grecia e la Jugoslavia. L’Italia che va ad invadere con le proprie forze di occupazione, che va a compiere i propri crimini di guerra contro i civili.
Uno stereotipo ormai radicato vuole l’italiano come il bravo italiano. Un bravo italiano che ancora oggi viene ricordato in Jugoslavia come il brucia case. I bravi italiani camice nere, alpini, bersaglieri e fanti pronti a fucilare seduta stante donne e uomini sospettati di combattere dalla parte sbagliata. Ecco il bravo italiano che in Grecia viene ricordato sì come stupratore seriale ma anche per i 145 civili (di età tra i 14 e i 70 anni) fucilati a Domenikon il 16 febbraio del 1943. Ecco il bravo italiano che costruisce i suoi bei campi di concentramento ove far risiedere gli oltre 110 mila vacanzieri dei quali si è accennato poco sopra. Cosa rimane oggi di questo bravo italiano? Niente a parte il bravo italiano. Una rimozione che ha giocato il proprio oblio con l’appioppare il male, l’unico male, al “cattivo tedesco”. Il bravo italiano non si sognava minimamente di entrare in guerra, il bravo italiano ha salvato gli ebrei, il bravo italiano con il mandolino del capitano Corelli, il bravo italiano del Mediterraneo di Gabriele Salvatores. Or bene eccoci quindi in Piazzale Loreto con il corpo del bravo italiano che ha portato il paese in disgrazia. Ecco il bravo italiano riprendersi la propria bravura, pronto a lavare con il sangue del suo dittatore quelle colpe che non riconoscerà mai. Francia, Albania, Grecia, Jugoslavia han chiamato a processo i criminali di guerra italiani e l’Italia ha risposto: “Tranquilli, li processiamo noi, a casa nostra”. Peccato che questo processo, come ribadito, non è mai avvenuto. È stato molto più rapido riportare a casa i marò, i nostri leoni, quei due con la faccia non proprio da geni. In questo caso sì che si invoca il giusto processo e la giustizia. Tornando a noi, gli unici stronzi possibili immaginabili sono stati i tedeschi. Per ribadirlo meglio, a ridosso dell'estate, il quotidiano Il Giornale ha ben visto di allegare in omaggio il Mein Kampf di Adolf Hitler, per “capire il male”. Già perché in fondo non si era ancora capito bene. Ma soprattutto, il bravo italiano essendo bravo è totalmente estraneo all'idea di male e poverino ha bisogno di essere informato sulle atrocità commesse dai cattivi stranieri. Or dunque, per fortuna in edicola si può trovare anche di meglio. Se non vi si riesce proprio di prender coscienza di sé almeno vi è il tentativo di ridicolizzare il fascismo. Da qui Qvando c'era Lvi di Fabbri e Antonucci; fumetto del quale, fondamentalmente, non ho detto una beata mazza.    


* Il cammino della speranza by Sandro Rinauro

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