PHOEBE IN WONDERLAND di Daniel Barnz (2008) Era brilligo e gli unsci tovi
Ogni tanto capita di rimanere imprigionati nell'ultima immagine di un film, iniziano a scorrere i titoli di coda ma tu sei ancora all'interno di quel fotogramma. In quel singolo fotogramma ripercorri il senso di tutta la pellicola. Si resta sospesi, ancora legati al film. Quando questo capita, quando istintivamente ti viene voglia di applaudire (clap! clap! clap!) fosse anche ti trovi nella tua giovane stanzetta e non al cinema, significa ovviamente che il film che hai appena visto ti ha scosso. La bellezza di Phoebe in Wonderland si potrebbe semplicemente riassumere nel dire: è un bel film. Procuratelo! Senza stare a ricamarci troppo sopra. Ma vien da sé ovviamente che questo ottimo esordio alla regia di Daniel Barnz merita di esser minimamente analizzato. Se è un bel film è perché ha dei contenuti, mica pizza e fichi. Ed è quanto meno imbarazzante che un film così bello sia stato ignorato dalla produzione italica (pur essendo passato al Giffoni Film Festival). In rete, o sull'internet, ho letto alcune recensioni; un paio molto interessanti. L'unico neo è l'aver messo sotto il neon spoiler significativi. Elementi che è certo giusto non sciorinare. Elementi importanti, sui quali è interessante discutere ma è ben donde meglio centellinare quegli appunti rilevanti se questi tradiscono il piacere della visione. I perché è meglio scoprirli da sé. Se, in generale, nei film l'intreccio conserva nel finale o giù di lì certe peculiarità, non vedo perché si debba poi spararle al povero ignaro lettore che vuol un pochetto informarsi sul film. Cautamente comunque io avevo letto queste simpatiche recensioni solo a visione ultimata. Ora, qui ci vorrebbe un proverbio latino ma non mi viene in mente nulla. O forse sì, questo: in dubiis abstine.
In buona sostanza il film è il viaggio in un'auto indagine di una bambina. Un rapportarsi al mondo, al sociale, ai dettami, ai contesti da parte di una bambina che ha difficoltà nel farlo. Importanti difficoltà che minano il suo rapporto sia con la scuola sia con la famiglia (madre, padre e una sorella più piccola). Nella scuola tuttavia appare una via di uscita, una strada che la giovane protagonista rintraccia nel teatro. In ambito familiare le soluzioni sono più complesse. In sottofondo o in soprafondo sta Alice nel Paese delle Meraviglie, e accostamento non poteva essere più calzante. Alice cade in un mondo di significati stravolti, precipita in alto. In un impensabile che si plasma grazie all'assurdo. All'apparente insensatezza. Phoebe (interpretata da una Elle Fanning decisamente convincente) vive in modo psicologicamente violento il trauma di un'enérgheia, di una realtà propria, ancora in conflitto con la possibilità di un mutamento o chiarimento. Il non riuscire ad individuare un ponte coscienziale la consuma e il disequilibrio lo filtra con lo spettro dell'autolesionismo. Il reale non le appartiene, non riesce ad avvicinarlo senza farsi fraintendere. Per questo quando vede sbucare l'insegnante di teatro (Patricia Clarkson) sente di aver trovato un linguaggio.
Era brilligo e i viviscidi tovi
Raschiavan foracchiando i pratali:
Eran tutti mifri i borogovi,
E squoltian i momi radi invano
Il non senso ha senso proprio in quanto non-senso. Lo sgattaiolare dalle ingombranti e sovente poco fantasiose categorie del senso, del giustificare tutto ad ogni costo. In fondo anche il senso a volte ha un che di fittizio. L'accomodante certezza che sacrifica la vertigine. Nel mondo dell'arte tutto questo viene meravigliosamente decostruito, sovente esorcizzato. Nel mondo reale-pratico (ad un certo punto il padre di Phoebe bisbiglia qualcosa a proposito del mito della caverna platonica), nel mondo funzionale e sociale lo scontro tra due realtà può risultare distruttivo. Soprattutto se sei una bambina di nove anni. La madre (Felicity Huffman, oltremodo brava pure costei) di Phoebe, in un eccesso protettivo cerca di aiutare la figlia discostandosi dal problema, cercando di non affrontarlo direttamente. Il padre (un anonimo, quanto il suo personaggio, Bill Pullman) non fa molto per imporsi o per trovare una soluzione comune.
L'unico luogo curativo pare essere il palcoscenico e il mondo capovolto di Alice. Il mondo dello sradicamento di significanti e significati, ove la radice comunicativa risiede nel porsi tout court. Non l'esposizione di un senso ma l'esposizione e basta. Come sottrarre la linea della différance dalla sua sede tra significato e significante e giocarci come fa Charlot col suo bastone. In altre e meno spocchiose mie immagini è come rintracciare le lettere di una parola e tirarle via dal significato, mostrarle come lettere spaesate da un senso che acquistano però un loro (non)senso proprio nel loro essere spaesate. Come detto, tuttavia, il bastone prima o poi scivolerà dalle mani. L'allegoria del mondo di Alice per mostrare quindi una crisi. Una crisi con diverse prospettive. Da una parte l'arte o la fantasia come limbo e dall'altra la realtà come accoglienza imprescindibile. Il mondo del possibile-impossibile e il mondo degli affetti. Or dunque, non un semplice film sul crescere; il punto non è (solo) quello. Non è il classico percorso di crescita. Qui il punto è ben più profondo, delicato. Phoebe, per quanto giovane, sa bene chi è. Sa bene chi è come sa di non riuscire a riconoscersi. Di primo acchito tutto ciò parrebbe paradossale. Per questo il suo disagio, il suo sentirsi completamente imbruttita in un mondo col quale non riesce a comunicare, la divora. Il mondo esterno, con la sua banalità, tramuta in cenere il suo essere diversa. Non l'aiuta a rintracciare la sua diversità, a frenarla. Correggere sé stessa mantenendo se stessa, rispettando sé stessa. Phoebe ha probabilmente l'altezza conforme a raggiungere la serratura ma quello che le manca è la chiave. In conclusione, assieme a Tideland di Terry Gilliam, Phoebe in Wonderland è indubbiamente e direi anche oltremodo una delle migliori rappresentazioni delle allegorie di Alice nel Paese delle Meraviglie. Mutazione, rifugio, realtà, significati. Certo, in questo film il romanzo di Lewis Carroll (Charles Dodgson) viene preso come colonna sonora, un ruolo speculare ma soprattutto d'accompagnamento. Non è un ammodernare un'altra storia. Qui siamo proprio in ben altri luoghi. I luoghi di un esistere all'interno di una problematica. Ma, a parte questo mio estenuante essere prolisso, mi rimando a quanto sopra. Ossia la bellezza di Phoebe in Wonderland si potrebbe semplicemente riassumere nel dire: guardalo. Procuratelo! Ora! E buona visione.
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