MOMMY di Xavier Dolan (2014) 1:1=10
Ciao, come passa il tempo vero? Come stai? Ti piace la danza? Io non la capisco. Vedo qualcuno dimenarsi, saltare, fare piroette e mi domando “Sì, ma e quindi?”. Lo stesso discorso vale per l’arte poetica. Io di poesia non ci capisco una beata mazza. Alle medie mi piacevano Penna e Yeats ma non ci capivo nulla lo stesso. Ho quindi rinunciato alla poesia il giorno stesso in cui mi ci sono avvicinato. Pensavo di un poeta tutto il non necessario e mi domandavo come mai il farmacista non diventasse dottore. Cosa non ha funzionato nella sua vita? Oggi non è cambiato nulla. Continuo a pensare che scrivere poesie sia essere arrivati ad un punto elementare di non scrittura o di non scrittori. Ma è ovvio che il mio non capirci una mazza sia indice e appendice di una mia irrimediabile ignoranza. Ecco quindi che per tentare di esprimere una mia impressione su Mommy mi appendo ad una poesia che fa più o meno così: Ha una forma irregolare il dire / quando gli spigoli improvvisi / del Tempo / scontornano parole / e tace lo schioccare vorticoso / della lingua sul palato / come un frullare d'ali / a misurare - stanco - / il perimetro del vuoto. / Ha un movimento in girotondo / ogni lemma, prima dello schianto, / prima di precipitare in coincidenza del Silenzio / incrinandosi nel centro / e più dentro, nel profondo, / fino all'origine di Senso *. La poesia prosegue ma il senso del mio inserirla qua è sufficiente. E direi che è sufficiente perché penso che il film di Xavier Dolan possa essere riassunto anche così. Realizzerei in tal guisa, in un sol boccone, quella che viene definita l'utopia della recensione-riassunto. Un riassunto poderosamente soggettivo, ovviamente, ma efficace quanto un'altra forma di riassunto trascrivibile in una stroncatura: il rutto. Anche il rutto costituisce una recensione-riassunto. Basti prendere l'infelice caso di coso, come si chiama... Paolo Ruffini. Guardi un suo film e poi devi recensirlo. Come recensirlo in modo efficace? Il primo modo è quello di non recensirlo affatto, il secondo di recensirlo con un rutto e il terzo e non disprezzabile modo è di non recensirlo ruttando contemporaneamente.
Guardo Ruffini e la sua voglia oscena di darsi al cinema o di far ridere e penso: Cristo. Viene data la possibilità a quest'uomo di girare dei film, vengono investiti dei soldi, vengono impiegate risorse, viene consumata energia elettrica, c'è qualcuno che prepara il caffè alla troupe. E tutto questo per Ruffini. Ma se facendo così si sta in contemporanea rubando la voglia e il bisogno di fare cinema degli altri? E se da qualche parte ci fosse uno Xavier Dolan italiano che non può farsi avanti giacché non ne ha i mezzi e giacché quei piccoli spazi vengono rubati da Ruffini? Vien da sé che questo è un estremizzare ma neanche tanto. Inoltre mi rendo conto che inserire in un unico contesto (questo) il nome di Ruffini e quello di Dolan è cosa orrida. Tuttavia il contrasto amplifica oltremodo il concetto di talento. Il giovane Xavier Dolan che forse del sentirsi dare dell'enfant prodige si sarà anche rotto i cojons, non lo so, è senza dubbio alcuno una delle realtà cinematografiche più luminose. Fresco come un succo d'ananas con una goccia di latte da bere il giorno dopo una sbronza. Xavier ha un occhio cinematografico di una maturità sorprendente e anche l'altro occhio non è male. Insomma, diamine se è bravo. Bravo a tal punto da far girare i didimi a Godard. Da una parte l'oscurità autoriale e intellettuale di Godard e dall'altra la luminosità sfacciata di Xavier. Da una parte l'inutilmente difficile di Fortini e dall'altra la democratica chiarezza di Parise. Da una parte la figa di legno di Diego Fusaro e dall'altra la libertà sentimentale nel copulare di Valentina Nappi. Da una parte l'aulico dei poeti laureati e dall'altra i limoni di Montale. E quindi, nuovamente la poesia. Dio, ma che sto dicendo?!
Il formato 1:1 è anche un modo per concentrarci sui protagonisti, per non farci distrarre da altro. Restare continuamente in allerta. Neanche un voler imporre in modo egocentrico ma un evitare di avere il lusso di più spazi d'azione, dare al linguaggio cinematografico una soluzione altra, al pari del piano sequenza illusorio di Birdman. In Mommy c'è come un piano sequenza dell'immagine; un costante accorgerci dell'immagine. Un tradire, rivedere, mutare l'atavica invisibilità della macchina da presa. Con quale finalità? Quella emotiva. E quindi un fine che giustifica oltremodo i mezzi. Non è puerile narcisismo, quello di Dolan. Non vi sono eccessi, non vi sono giochini. C'è soprattutto e oltremodo cuore. E spero di non apparire troppo stucchevole nel parlare di cuore ma è una cosa che balza agli occhi, che balza nell'1:1, che balza in ogni essenziale passaggio del film. Come dire, a volte nella vita il vino va un pochetto annacquato. Ma per fortuna, questo non deve necessariamente succedere nel cinema. Nel cinema puro e bello, ove per puro intendo un cinema pregnante, che ti colma. E dove per bello intendo dire che Mommy è bello, bel cinema denso. Quello che ti stordisce e che ti rimane nella testolina. Il cinema che tocca delle corde dentro di te. Davvero fico quando ciò accade, no? Non avviene spesso e soprattutto non accade spesso da un autore così giovane come Xavier Dolan. Gesù, pensavo: sembra che questo film sia stato girato da un cinquantenne. Nel senso che sembra girato da un regista maturo. Maturo con il mezzo cinematografico e maturo con il vissuto da lui narrato. E invece... Invece chissà cosa saprà girare Dolan più avanti. Magari nulla, magari tutto.
Cinema di cuore, di pancia e di stomaco quindi. Cinema anche di fegato. Tutta una serie di organi indirizzati al rapporto d'amore per antonomasia: quello tra madre e figlio. Non starò qui a srotolare in modo spocchioso strati di cotale rapporto ma non mi posso tirare troppo indietro nel annotare quanto dice Lucrezio a riguardo dell'iperattività dei figli, quando dunque alla madre “aggiunsero le belve perché la prole, per quanto selvaggia, deve addolcirsi vinta dalle affettuose cure dei genitori”**. In Mommy un aiuto alla mommy lo dà colei che è diviene il personaggio più affascinante e, nel suo silenzio, quello più intenso. Un personaggio quasi muto in risposta (muta) all'amorevole caos che regna nei due protagonisti. La difficoltà della parola appiccicata alla difficoltà dell'esistere, dell'indicare con la voce i momenti. Con lei il cerchio si chiude, anzi, si espande. Quasi una terza madre, madre della madre e madre del figlio. Cosa questa che detta così pare pure una preghiera ma loro, i protagonisti non pregano ma ballano. Cercano nei momenti ludici di trascinarsi dentro sé stessi, in quel triangolo sconfitto. Questo perché Dolan, in tutto il suo talento, sfrutta ogni virgola del mezzo cinema. Musica, colori, rallenty, luci, piani sequenza. Tutto è a favore della storia e dei personaggi. Non c'è nulla che appaia messo lì in modo gratuito e men che mai narciso. Un abbaglio il pensare che il regista voglia farci vedere quanto ci sa fare: tutto ciò che c'è è giusto che ci sia. A riguardo, quella che probabilmente è la mia scena preferita del film. E vorrei citarla senza spoilerare anche se poi non vi è molto da spoilerare. Ad un certo punto cala il buio. Ed è un buio che io non credo di averlo mai visto fotografato così. È una oscurità reale, si tocca, e in quella oscurità due protagonisti interagiscono. Cercano di comunicare, cercano di guardarsi, di dirsi. Nel black-out di affettività sprazzi di luce nell'oscurità. E quando possa sembrare che ci si prenda troppo sul serio basta un occhiolino e un colpo di tosse ad aprire la successiva sequenza, luminosissima e pop. Mi sarebbe stata sufficiente questa sequenza e il modo in cui si aggancia all'altra a farmi pensare che Mommy è un bellissimo film. Cazzo.
E a proposito di cazzi, il protagonista è un cazzone. Un cazzone un po’ simpatico. Si muove per elementi elementari, a tratti troppo elementari (“Non sono razzista è lui che è negro”), troppo sintetici. Un bimbo adulto, un Kevin di Mamma ho perso l'aereo che ha continuato a perdere l'aereo e che ha continuato a sentire l'assenza e il sanguigno bisogno di madre. Amarsi è accendere uno scontro; colmare e farsi colmare. La caccia a quel corpo da cui l'animo è ferito d'amore, come scrive Lucrezio. Una ferita ove e per lo più tutti cadono “e il sangue sprizza nella direzione da cui è vibrato il colpo e se il nemico (l'amato) è vicino il getto vermiglio lo irrora”. E quindi? Cosa succede ai feriti? Succede che “chi riceve la ferita dai dardi di Venere, siano essi scagliati dalle femminee membra d'un fanciullo, o da donna che irradi amore da tutto il corpo, si protende verso la creatura da cui è ferito e arde di congiungersi a lei”**. Una congiunzione che è anche un annullarsi, un dissolversi nel sempre mancato avere l'altro. L'altro non è il me, non posso stringerlo, accarezzarlo, tenerlo in me come tengo me. Tenerlo in me meglio di me medesimo. Fare dell'altro una versione migliore di me, la versione giusta. Il matrimonio perfetto. Problematiche che nel rapporto madre-figlio sono alla base della base. C'è già subito il corpo nel rapporto figlio e madre. Un corpo al quale si vuole tornare e cotale tema in Mommy è reso con una sensibilità in grado di cancellare l'aspetto incestuoso. Permane una pura affettività di figlio. La sensibilità e la problematicità di un bimbo, appunto. Vi è il dire adamantino. Il comunicare in uno spazio e in un tempo non più puri. Un comunicare nella corruzione di un tempo, di un'età. Questo perché ha una forma irregolare il dire; quando gli spigoli improvvisi del Tempo scontornano parole e tace lo schioccare vorticoso della lingua sul palato. Come un frullare d'ali a misurare - stanco - il perimetro del vuoto. L'inseguire in modo disperato un rapporto che pare impossibile. Urlare il proprio bisogno di lei e il terrore del rifiuto. Il terrore dello scontro perso che lascia infine la traccia della paura; macchie di piscio sui pantaloni e un pianto racchiuso tra le proprie sole braccia. Sì, perché ha un movimento in girotondo ogni lemma, prima dello schianto, prima di precipitare in coincidenza del Silenzio incrinandosi nel centro e più dentro, nel profondo, fino all'origine di Senso. Il senso e quindi la rivelazione dei fatti.
Il fatto dell'abbandono? A te l'indagare cotale questione. A prescindere da cose come le ferite narcisistiche in seno al non capezzolo della madre. La cosiddetta “cattiva madre” o le cause della depressione psicotica. A prescindere da questioni un pochetto assurde (ma grazieaddio questo non riguarda il film) quali la perdita del nutrimento in termini di espulsione anale nonché di compensazione in forma orale. A livello inconscio non sono propriamente un grandissimo estimatore della psicologia. Ma la mia è mera disinformazione professionale. Opto per la sfera veterinaria. E opto per Mommy e Xavier Dolan. E tra l'altro non avevo idea che nel Québec si parlasse francese. In Canada si parla francese? Come è possibile? Come è sopravvissuto? Se mi fossi degnato di leggere Infinite Jest lo avrei saputo. Che ignorante. Mommy, dicevo. Pressoché superfluo elogiare con un bel applausone i tre attori protagonisti. Il problematico Antoine-Olivier Pilon (si veda eventualmente la sua antitesi nel video degli Indochine diretto da Dolan stesso), Anne Dorval (in modalità speculare a J'ai tué ma mère) e Suzanne Clément. In ultimo or dunque che dire di più se non Se non l'hai visto procuratelo? Sì, se non l'hai visto procuratelo. E se per alcuni Dolan è uno dei più clamorosi bluff recenti mi chiedo cosa sia un non bluff ma soprattutto mi chiedo dove risieda oggi - scevro da naftalina - uno sguardo così appassionato nonché appassionante sulle relazioni umane. E mi sono anche domandato ove io fossi dislocato una volta uscito dalla sala, giacché l'impressione è stata quella di essere ancora seduto sulla poltrona del cinema. Dovevo staccarmi lentamente, sapendo che il vero bluff era là fuori, forte era il bisogno di respirare ancora il talento vero.
* Di sole voci by Silvia Rosa (LietoColle editore)
** La natura delle cose (Libro secondo, 604) by Lucrezio
** La natura delle cose (Libro quarto, 1048-1056)
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