MANIAC di Franck Khalfoun (2012) Un diavolo per capello

Non che non sia un amante del genere horror o affini, solo che mi ritrovo ad essere più esigente rispetto a quando avevo due anni. Nel senso che guardare un horror brutto mi fa davvero pensare di aver perso tempo. Non che non abbia tempo da perdere, anzi. Tuttavia la cosa mi snerva e quindi vorrei proprio andare sul sicuro. Leggendo qua e là commenti molto positivi per questo che è un remake di un cult di culto degli anni Ottanta - che comunque io non ho mai visto - ho pensato quindi bene di spararmelo. Ho pensato bene? Be’, direi proprio di sì. Tenendo conto - se possibile - di quanto detto sopra, Maniac si è collocato nella mia filmografia quotidiana tra una serie (pressoché in coda) di film orientati su sangue, spiriti e mostri. Vale a dire: Cabal, Sinister, L'evocazione, You're Next, Insidious 2 e The Orphanage. Tra questi Maniac è quello che mi ha convinto decisamente di più (anche se su Cabal andrebbe fatto un discorso a parte giacché è uno di quei film che amavo da giuovine). E mi ha convinto perché è un film meravigliosamente malato che ho sentito particolarmente. Succede a volte di ritrovarsi in un film, solo che ritrovarsi in un film ove c'è un tizio che va in giro ad ammazzare e a fare lo scalpo a fanciulle indifese non è proprio il massimo. Infatti non mi sono ritrovato nei lavori di coltello miracle blade del protagonista quanto in certe atmosfere mentali. E questo un po' mi ha messo a disagio. Ma tranquillo caro lettore, non sono un serial killer, non ne avrei le capacità né tecniche né psichiche. Inoltre se dopo una cena, nella quale mi sono comportato in modo strano, una ragazza come Megan Duffy (coi suoi bei tatuaggi e suoi bei piercing) mi invitasse nel suo appartamento e mi offrisse da bere e mettesse sù Goodbye Horses di Q Lazzarus e poi si assentasse per ripresentarsi in slip e reggiseno Be’... Be’, non mi salterebbe minimamente per l'anticamera della amigdala di sbucciarla. In linea di massima non ucciderei nessuno seppur sia abbastanza convinto che ogni essere umano sia un potenziale omicida. Nelle circostanze giuste l'istinto omicida viene fuori, siamo creature abbastanza inquiete. Ma in condizioni di normale esistenza tutto è altamente sopito negli antri, per fortuna. Segue ipotetico emoticon sorridente.
Slasher movie quindi, Maniac. Storia di un ragazzo con una infanzia difficile, imputabile perlopiù ad una madre stronza. Un'infanzia difficile che trova sfogo nella più matura età, grazie ad una ricerca del genere femminile ideale che finisce sempre per strabordare nell'omicidio. La ricerca dell'idilliaco frana regolarmente, si sgretola come fango secco. “Il ritratto è un punto di passaggio, un varco stretto fra la luce e il buio. Come un fragile velo di carta, basterà spingerla in un senso o nell'altro, quella immagine dipinta, ed essa potrà chiamare alla vita oppure alla morte. Ciò che più tortura è l'oggetto che ci consola.”* Frank Zito, il protagonista del film, non dipinge ma restaura manichini. Un restauro che va ben oltre il consueto concetto di restauro; per lui infatti i manichini costituiscono quel ritratto femminile che sempre va a perdersi e che deve essere in continua sostituzione. Frank come un Petrarca psicotico or dunque. Che c'entra Petrarca ora? Petrarca amava una fanciulla di nome Laura, ne era così innamorato che aveva commissionato al suo amico pittore un ritratto di lei. E doveva essere un ritratto bellissimo e importante, soprattutto per Petrarca che poteva avere sempre accanto a sé la donna amata. Petrarca lo toccava quel ritratto e ci parlava anche. Un dipinto importante giacché di Laura, Petrarca, poteva avere solo una raffigurazione pittorica. Questo perché Laura non era minimamente interessata al nostro poeta ed era pure in sposa ad un altro. Fu solo con la morte (a causa della peste) di Laura che Petrarca poté finalmente vivere serenamente con lei; solo nel riparo della morte Laura abbracciava l'amore del suo spasimante. Nel segreto del suo silenzio e al riparo dal mondo, Petrarca si univa a Laura, alla Laura ormai morta ma ancor più viva. Laura non c’è, è andata via. Laura non è più cosa mia cantava Nek. Gli amori impossibili sono forse quelli più indistruttibili e duraturi. Per comprendere questo basta semplicemente sfogliare le pagine del Canzoniere mentre per vedere il ritratto di Laura che fece il pittore Simone Martini si può solo far ricorso all'immaginazione giacché il quadro è andato perduto.
La figura amata che manca in continuazione. Figura insostituibile e praticamente non oggettivabile. Una ricerca vana ma vitale per Frank Zito. Ricerca che noi spettatori vediamo in prima persona essendo il film girato in soggettiva. Un POV (point of view) che ben donde è uno dei tanti punti di forza della pellicola. Siamo costretti a guardare tutto con gli occhi di Frank. Una sensazione sgradevole, specialmente nei momenti più atroci. Una empatia forzata. Sappiamo di essere all'interno di un individuo estremamente pericoloso e poco rassicurante eppure, quando possiamo vedere (o vederci?) Frank grazie a specchi o fortuiti riflessi ci rendiamo conto che Frank non è così minaccioso. Non è come la versione originale interpretata da Joe Spinell, non ci ritroviamo davanti un omone sudato, coi capelli unti e i peli sul naso. Non abbiamo innanzi un faccione allucinato ma il viso innocuo di un esile Elijah Wood. Il ragazzo della porta accanto, il ragazzo della porta accanto che al massimo parla col suo grosso cane antropomorfo ma che è ben distante dall'essere un serial killer dedito a fare lo scalpo alle sue vittime. Il Frank esterno, quello che noi non vediamo quasi mai, è un semplice e timido ragazzo che tra una emicrania e l'altra si dedica al restauro. L'unica cosa che al massimo può sorprendere è il come faccia a catturare l'interesse di una giovane donna come la fotografa interpretata dalla francese Nora Arnezeder (giovane donna di rara bellezza, tra l'altro. Vista anche in The Words).
Quando continuiamo a vivere dentro Frank e quando lo seguiamo nel suo peregrinare notturno (un altro aspetto fico sono le atmosfere anni Ottanta nel fotografare una Los Angeles al contempo povera e ricca nonché la colonna sonora refniana), quando ci muoviamo con Frank – dicevo - tutta la sua profonda instabilità ovviamente ci piove addosso. Un temporale di solitudine ed inarrestabile follia. Come commenta anche il regista, ci rendiamo per l’appunto conto di quanto sia ben più spaventoso il ragazzo della porta accanto rispetto ad un pazzo dalla faccia da pazzo. Il serial killer più spaventoso è quello affascinante, quello bello, quello intelligente. Ed è il serial killer più pericoloso perché, dice Khalfoun, è quello assolutamente mortale. È l'uomo che può avvicinarsi a te, rendersi piacevole se non addirittura desiderabile. Elijah Wood ha un'estetica mite e ciò in Maniac lo rende oltremodo inquietante e disturbante. Merito della scrittura, della regia e ovviamente merito di Elijah Wood che riesce a dare una impronta al suo personaggio. Riesce a dare quella impronta inquieta e malsana unicamente con la voce. Quelle sottili sfumature che l'attore riesce a donare al suo personaggio sono indubbiamente lodevoli, estremamente significative. E poi, come detto, c'è la regia. Non è facile creare tensione quando sei dentro l'omicida, quando non vi è il solito effetto del killer che sbuca all'improvviso. Qui è il contrario, vorresti dire alle vittime di scappare e - paradossalmente - in alcuni momenti speri che tu, cioè il killer, non venga visto. Spostati! Ti vedono!! Ugualmente, ci rimani male quando trattano male il lato timido dell'assassino. Ci rimani male e pensi: Hey, perché ci sto rimanendo male? E poi ci sono soluzioni di regia non banali, come il vedere a volte l'omicidio dall'esterno; il che corrisponde allo sdoppiamento della personalità di molti serial killer. Il loro vedersi dall'esterno. Insomma, in soldoni, è tutto un vedere altri nel vedersi e nel vedere noi stessi.
Noi che presumibilmente non siamo serial killer ma persone... della porta accanto. Creature umane, comuni e (fortunatamente) irripetibili che sanno bene cosa è l'irripetibilità e la perdita. La perdita è davvero un brutto affare. Lo sa anche il Frank di Maniac. Il nostro lato umano vorrebbe porre sempre rimedio alla perdita e il nostro lato oscuro vorrebbe cancellare quella perdita e reiterarla per averne possesso (tipo forse il noto rocchetto freudiano). La bestia assopita in un angolo profondo del nostro essere. Il nostro lato omicida potenziale. Barricato tra mura ordinariamente indistruttibili. Il dolore solitamente lo si affronta con altri mezzi. Frank Zito non ha più altri mezzi. Risponde alla sua altra natura, a quella creatura oscura che l'ha inghiottito; risponde con lo sgravio e l'oblio. Un declino che ha in sé un che di romantico, come suggeriscono le note musicali di Rob. Il romanticismo solitario e struggente dell'affettività negata e del crollo inarrestabile. Scoprendosi ogni tanto spaventati, impauriti nel guardarsi allo specchio. Resistendo al proprio essere soli. Per quanto io credo tutti noi siamo soli, sempre, e in perenne e ovvia soggettiva. La resistenza è la cosa migliore che possiamo attuare se proprio lo si deve fare. Incontrare altri terrestri è una resistenza, creare è una resistenza, desiderare un padre, una madre o un cagnolino sono resistenze. Non c'è nulla che possiamo davvero fare per sostare in un luogo di pienezza, la pienezza non ci appartiene. Siamo sottrazioni ambulanti ma per fortuna lo siamo senza il bisogno, un filino anaffettivo e spiacevole, di staccare il cuoio capelluto agli altri. Ora, non ho capito molto quello che ho appena scritto ma mi sembrava bello poterlo dire, ascoltando Breathing underwater dei Metric ma soprattutto preparandomi a fissare per un paio di ore il muro. In silenzio.    


* Il ritratto dell'amante by Maurizio Bettini

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