L’ODIO di Mathieu Kassovitz (1995) È un fatto di appartenenza
Non nutro una grande simpatia nei confronti di organi di controllo quali sono polizia e carabinieri. Ma non nel senso che non apprezzi la loro funzione, sostanzialmente indispensabile allo stesso modo di come è indispensabile un idraulico o in elettricista quando vi è bisogno. Più che altro ciò che mi mette addosso forti dubbi e titubanze è l’idea che quel ruolo, poliziotto o carabiniere, finisca per essere solo lo scudo di personaggi che in altri contesti sarebbero giudicati diversamente. I poliziotti sono in linea di massima degli esseri umani come noi e, di per sé, questa constatazione porta a qualche inquietudine. In generale ti aspetti da un poliziotto ciò che un essere umano non può darti: l’equità. Per essere equo un poliziotto non dovrebbe essere un poliziotto. Cristo, neanche Equitalia è equa! Errare è umano. Tuttavia si ha l’impressione che l’errore di un poliziotto sia di più difficile riconoscimento. Se all’interno di una caserma o di un carcere avvengono cose illegali, questa illegalità deve prima superare delle mura e anche superate quelle mura non è detto - anzi - che il tutto verrà vagliato dalla giustizia. Per esperienza personale non ho mai avuto la netta sensazione di trovarmi davanti persone propriamente degne di indossare una divisa. Una divisa che finisce poi per autorizzare, auto-tutelare chi la indossa. D’altro canto neanche io mi sono dimostrato particolarmente collaborativo, non in senso sovversivo tout-court ma in un senso unicamente verbale. Alla fine la preminenza l’aveva quel capzioso imperativo che dice: “Sta’ zitto! Tanto hanno sempre ragione loro”. Ad ogni modo, visto che di cinema si parla, mi è anche capitato di usare ad’uopo una citazione da Il grande Lebowski: messo alle strette ho suggerito come mio avvocato il rispettabile Perry Mason, nonostante il contesto generale e la mia posizione così in stato di fermo non permettessero battute simpatiche. Sempre meglio che avanzare riflessioni che tirassero in ballo il concetto di forza differenziale targato Jacques Derrida. “Sceriffo, lei ha perfettamente ragione ma anche Aristotele parlava di salvare le apparenze”.
Orbene la legge si realizza con la sua opposizione. Come a dire che non mi ero accorto di quel vaso fino a quando non l’ho rotto. E orbene quel paradossale statuto ontologico per il quale “la legge non è se non in virtù della trasgressione”*. Ossia, infrangere la legge è chiamarla. Da qui si può forse iniziare ad intuire quel collasso che avviene quando è la legge stessa a chiamare la legge. Un po’ come quella cosa un filino odiosa che fanno i poliziotti in tenuta da battaglia: rumoreggiare utilizzando i manganelli. Sempre meglio comunque di quando si sentono legittimati a prenderti a calci che tanto loro sono poliziotti. Salvaguardati dalla loro divisa e dal loro anonimato. Già, perché dei poliziotti protagonisti di violenze ingiustificate se ne ignorano pressoché i volti. Mentre di chi ruba un ovetto Kinder se ne arriva poi a conoscere anche l’esame delle urine e alla fine non ti lasciano neanche giocare con la sorpresa. Se non hai un nome e non hai un volto chi denunci per abuso di potere? A chi chiedi il conto per la milza? In tal senso l’impotenza e la frustrazione sono il punto di partenza de L'odio di Kassovitz. I tre protagonisti sanno di non poter avere giustizia, la loro posizione non glielo permette. Non hanno un volto da indicare come colpevole e quindi combattono la categoria in generale, i poliziotti. Poliziotti che non fanno molto per risultare innocenti. Ma, come detto, l’indossare una divisa non ti rende innocente, ti rende solo invisibile. L’invisibilità, il nascondimento, configurano tutto il film. L’invisibilità dei colpevoli ma anche l’invisibilità dell’azione (“vedi” il finale). L’invisibilità di una pistola. L’invisibilità di Asterix. L’invisibilità di una vacca. L'invisibilità di una scoreggia. L’invisibilità della Tour Eiffel che si spegne (e che è quindi doppiamente invisibile giacché i tre si perdono il momento della sua invisibilità). Hubert, Vinz e Saïd si muovono per Parigi circondati dal nascosto. Nessun luogo, nessun approdo sociale. Al limite capri espiatori, come le piccolo borghesi fanciulle ad un vernissage o come i nazisti nascosti simil topi nei vicoli.
Da un punto di vista astronomico non ne ho idea ma dal punto di vista sociologico, i protagonisti de L’odio rientrano simpaticamente nella sfera della devianza. Coloro che commettono atti che urtano la coscienza comune vengono definiti “devianti”. Ma giacché anche cotali raggruppamenti abbracciano il relativismo, si può osservare come la devianza ballonzoli dall’idea di giusto a quella di ingiusto come uno scroto incastonato in un antico orologio a pendolo. È cioè evidente come nel film (in linea di massima anche nella vita) non vi siano separazioni nette tra il giusto e l’ingiusto. Ad un organo “giusto” – socialmente riconosciuto giusto – come quello delle polizia, può capitare di precipitare nella devianza propriamente detta. Il concetto di reato quindi rimbalza dai manuali sul rispetto della legge alla reazione sociale. Dal testo al contesto. L'ottuso non riconoscimento di questa possibilità, il santificare il santo perché porta l'aureola, può condurre a disastri. E questo accade quando il contesto socioculturale che subisce un’ingiustizia o un crimine è troppo relegato a margine (da un contesto socioculturale più ampio e predominante); la voce del dissenso resta pressoché inascoltata. Privata di credibilità: tutti credono ad un poliziotto, in pochi credono ad un ladro. Disagio totale quindi e reazioni spropositate da ambedue le parti. L’odio genera odio, e all'ingiustizia si accumula ingiustizia. Nel mezzo c'è attesa e frustrazione. I protagonisti del film di Kassovitz vagano, nel loro conto alla rovescia.
In questa atmosfera decadente Hubert, Vinz e Saïd potrebbero anche diventare i personaggi principali di un poema di Lucano (non l’amaro ma il nipote di Seneca, il seguace di Cornuto e marito di Polla. Il Lucano suicida a 25 anni). Giovani uomini non totalmente deplorevoli. Moralmente non così in torto e quindi, lucanamente, dei vincitori sconfitti. L'amarezza di Lucano, cosa vuoi di più dalla vita? Or dunque costoro possono solo aiutarsi tra di loro, farsi aiutare da uno spacciatore o da un ubriaco incontrato per strada. Hubert, Vinz e Saïd, derisi dagli eventi della loro epoca e in fondo convinti che vi sia più giustizia nell'ingiustizia. Il tipo di gente che muore per una cagata di troppo (o troppo appartata) mentre il treno sociale se ne va allegro, verso un qualche luminoso futuro. Verso l’infinito e oltre. Ho un serpente nello stivale. Sia mai poi che quel treno perso non vada a deragliare e che quei binari non si rivelino reindirizzabili. In fondo, come sostiene il franco-algerino Derrida, il diritto è essenzialmente decostruibile essendo, il suo fondamento ultimo, infondato. Le cose insomma possono anche migliorare. In caso contrario può aiutare il vivere la caduta momento per momento, passo per passo. Nella cristallina coscienza che “fino a qui tutto bene”.
* Forza di legge - Il fondamento mistico dell'autorità by Jacques Derrida
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