LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT di Gabriele Mainetti (2015) È un volo a planare
Se ne avessi le capacità mi garberebbe assai articolare un discorso su questo film che non risultasse né altezzoso né noioso. Purtroppo il mio problema è che sono una persona abbastanza limitata ed inconcludente e tale combinazione produce solo spazzatura ma soprattutto il mio problema è che sono incontentabile, non mi sta mai bene niente; dice la gente. Tuttavia, visto che non scrivo per nessun editore e visto che non devo rispettare nessuna linea programmatica né alcuna direttiva esterna, mi concedo un tuffo nel bidone della mondezza. Non volendo ledere l’intelligenza del lettore occasionale o meno capitato da queste parti, il mio invito è quindi quello di lasciar perdere quanto segue e di indirizzarsi a forme di scrittura molto più curate e molto più precise. L’incantevole popolo del web ha sicuramente di meglio da fare che stare a leggere queste mie, come dire, stronzate. Detto ciò, era da parecchio che non pagavo un biglietto del cinema per andare a vedere un film italiano. Non nutro molta simpatia per il contemporaneo mondo cinematografico italico. Probabilmente i miei pregiudizi sono viziati dalla carovana di commedie più o meno leggere che transitano in modo spudorato sugli schermi nonché dalla faccia di Paolo Ruffini, dalle smorfie di Lucianina Littizzetto e dall'aspetto sempre più preoccupante di Gabriele Muccino. Quel mondo di trentenni e quarantenni aggrovigliati in situazioni simpatiche, quel mondo di situazioni portate all'eccesso. E ove non ci sono le commedie vi sono poi le storie di tipica e ridondante vita di tutti i giorni con quei toni edificanti ma anche un pochetto amari. Vicende che mi interessano quanto un pelo di culo di Matteo Salvini che pende dal naso di Matteo Salvini stesso. Troppo rischioso or dunque spendere soldi per una storia tutta italiana. Per fortuna, per codesto film di Gabriele Mainetti, ho deciso di sborsare i miei quattro euro (godendo di piacevoli sconti) nonostante, a dirla tutta, le storie di supereroi mi hanno abbastanza sfrantumato le palle. Le reazioni entusiaste al film erano tante, davvero tante, forse troppe. Reazioni euforiche che seguivano un carnet cinematografico italiano inaspettatamente pregno. Inoltre la parola carnet sembra il nome di un amaro: Cosa desidera signore? Mmm, mi porti un carnet. A livello di critica positiva sembra quasi quasi di essere tornati ai tempi di Roma, città aperta, Sciuscià e Paisà, ascrivendo Lo chiamavano Jeeg Robot al seguito di Non essere cattivo, Suburra e Fuocoammare. Una rivoluzione nel cinema italiano. Una ventata d’aria fresca nel cinema di genere. Insomma, da spettatore il film di Mainetti poteva solo peggiorare. Nel senso che il tanto parlarne bene mi aveva condotto sulla strada di una delusione pronta a concretizzarsi. È stato così?
No. Lo chiamavano Jeeg Robot è esattamente ciò che si dice in giro: una ventata d’aria fresca nel cinema di genere. Mainetti ha effettivamente preso un filone che non appartiene al Belpaese e l’ha reso totalmente italiano. Ove per italiano intendo un qualcosa di positivo. Cotale situazione mi ha riportato alla memoria vicende simili, avvenimenti che magari i più giovani faticheranno a ricordare. Eppure, alla fin fine, sono ricordi d’una età felice che non appaiono poi così remoti. Mi riferisco al 240 a.C. e quindi ad una data canonica per alcuni di noi: la nascita della letteratura latina. No, non sto parlando della letteratura del reggaeton e del paso doble ma di quella letteratura sviluppatasi in Italia nel III secolo prima della nascita di Cristo. All'epoca non c’era ancora il cinematografo, c’era però il teatro e proprio in questa data, il 240, fece la sua comparsa nel mondo del palcoscenico uno scrittore che era stato tempo addietro uno schiavo (uno schiavo greco sbarcato in Italia). Sì, hai indovinato, sto parlando proprio di lui, Livio Andronìco. Cosa combinò Livio? Ufficialmente prese un qualcosa di non romano e lo fece diventare profondamente romano. Ossia, dalla letteratura greca di età ellenistica ecco che è sbocciata la letteratura latina. Non un bizzoso copia e incolla ma una rielaborazione in salsa romana, peculiarmente romana. Come il western di John Ford che diviene lo spaghetti western di Sergio Leone, Sergio Corbucci o Enzo Barboni. Gabriele Mainetti ha preso il genere supereroistico e l’ha trapiantato a Tor Bella Monaca. Dall'America all'Italia. Dal morso del ragno all'immersione nei rifiuti tossici. Dall'eroe adamantino al piccolo criminale in mutande. Dall'uomo elegante e milionario all'uomo avvizzito affamato di yogurt e pornazzi. Ora, cotale rivisitazione poteva finire a tarallucci e vino, poteva strabordare nel pacchiano andante e nella magniloquenza più insidiosa. Per fortuna Lo chiamavano Jeeg Robot non è questo. Oltre al già grosso merito di aver scritto qualcosa di nuovo usando qualcosa di non nuovo, Mainetti e il suo gruppo sono riusciti a dar alla storia raccontata un corpo solido e in perfetto equilibrio. Passando cioè dai momenti più cupi ed emotivi a quelli più amorevolmente coatti mantenendo sempre la medesima ottica d’insieme. Ha senso il rapporto tra Enzo e Alessia, hanno senso i loro momenti più ludici e quelli più drammatici. Ha senso l’esser fuori dalle righe dello Zingaro. Tutte queste cose messe assieme non costituiscono un calderone impazzito ma danno corpo al film, donano struttura. In altre parole, l’orchestrazione è oltremodo riuscita. Vi è una armonia che compatta l’impianto come un termosifone compattato.
Detto questo, a molti e anche a me è capitato di pensare: perché non ci sono supereroi italiani? Mi rispondevo, scaccolandomi, che forse non vi erano i mezzi produttivi per far esplodere cose, spostare auto, distruggere pareti. E mi rispondevo anche che ‘sta faccenda di esplosioni e contro-esplosioni non faceva in fin dei conti parte della cultura pop italica. Non ne faceva parte se non per qualcosa di poco entusiasmante quale la mafia, la camorra, la 'ndràngheta e tutti i ciccio formaggio, padrini e castagne. Ma se già Livio Andronìco ha dimostrato che si può amalgamare una propria esperienza culturale con un’altra distante da noi, perché allora non provare a rifarlo? Gabriele Mainetti per fortuna l’ha fatto e il risultato è ottimo. Mainetti ha riscoperto l’urbanitas augustea, se mi si passa l’espressione giacché non ho mica detto cazzo marmoreo in punta di pelosa fica. Urbanitas, vale a dire il delizioso gusto per la rottura degli schemi condita con l’ironia e l’intelligenza. Come se non bastasse è stata poi agguantata una delle tante icone nipponiche con le quali alcuni di noi hanno passato simpatici momenti nipponici, Jeeg robot. Io adoravo e odoravo Jeeg robot d'acciaio (noto anche col nome 鋼鉄ジーグ), la serie di cartoni animati. E adoravo e odoravo ovviamente anche i giocattoli annessi. Ci armeggiavo felice e spensierato con quelle creature robotiche fatte di plastica, calamite e gommini volanti. Peccato che con assoluta incoscienza ho smarrito nel tempo tutti quei bei giocattoli. Valore aggiunto quindi l’aver preso Hiroshi Shiba trasportandolo in modo folle e riuscito nella periferia romana. Il nuovo Hiroshi ora è un uomo del Novecento, nel senso di uomo che se ne sta per i cazzi suoi. Un uomo appesantito dalla vita, rinchiuso nel suo appartamentino bunker, saggiamente a distanza dal mondo e da qualsivoglia interazione sociale. Assennatamente lontano anche da blandi stereotipi visto che Enzo Ceccotti (il mai così azzeccato Claudio Santamaria) poteva sì essere vittima dell’alcol e vivere di postumi ma invece – opzione quanto mai indovinata – è vittima degli yogurt. E che dire ancora della trovata di un cattivo che è un ex della televisione? Uno che ha cercato di farsi strada nel meraviglioso universo del piccolo schermo ma che poi è franato in una vita priva di luce, crocifisso al muro. Lo Zingaro del fantastico Luca Marinelli è l’uomo che è stato consumato dalla sua ossessione di apparire. E a questo punto vorrei vedere quanto prima un horror con i tronisti di Maria de Filippi in veste di zombie tatuati, psudo-fighi, alti, tonici e con il poco cervello a colargli dalla fronte.
Tornando a Lo chiamavano Jeeg Robot e ai suoi ottimi protagonisti, non si può ben donde eludere Ilenia Pastorelli e il suo personaggio, Alessia. Una fanciulla che per salvare se stessa è rimasta bambina. Alessia, asserragliata nel suo guscio immaginario, non è quindi tanto distante dall'Enzo strozzato dalle sue mutande e adagiato nei porno e nel consunto appartamentino. L’unica differenza è che lei (come le eroine di Ovidio tra l’altro) vive anche una assenza; l’assenza di un qualcosa e quindi il sentimento dell’attesa. L’attesa dell’eroe che finalmente salverà il mondo. Or bene, in un film così ben scritto fanno da ciliegina sulla torta tre personaggi e tre attori indovinati quanto una sacher da consumarsi alle tre e un quarto del pomeriggio. Bravi tutti quindi? Sì, grande applausone. Applausone anche per la colonna sonora (a tratti però simile a quella de L’uomo d’acciaio firmata da Hans Zimmer) e per la scelta dei brani. Nella vita mi è capitato di ascoltare Non sono una signora di Loredana Bertè (scritta da Ivano Fossati), sognando di cantarla a squarciagola tutto pimpante e struggente, saltando all'uopo sul letto della cameretta. È perciò molto fico vedere quella canzone utilizzata così nel film. Se proprio (ma perché?) si deve cercare un difetto in Lo chiamavano Jeeg Robot io lo rintraccerei nel finale. Un finale un po’ troppo “grande”, un contesto troppo ampio. Contesto che per qualche ragione mi ha portato alla mente Offside di Jafar Panahi, con quel mondo che si sente ma che si intravede appena. Avrei apprezzato un qualcosa di più contenuto, tipo un campo di calcetto o di bocce. C’è un po’ troppo nel finale ma c’è comunque molto nel film. Molto tra cui il mostrare una Italia infinitamente meno spocchiosa e fasulla di quella mostrata in altre pellicole.
In tal guisa, è bello poter pensare (come suggerisce Francesco Alò nella sua videorecensione) che Enzo Ceccotti stia scappando - all'inizio del film - perché ha appena rubato l’orologio all'insopportabile Jep Gambardella dell’insostenibile La grande bellezza. Jeeg che scippa Jep è il mio pensiero felice della giornata. Non che il rubare sia cosa da lodare, visto che da poco mi sono malauguratamente fatto fregare una borsa con dentro non un portatile (come probabilmente ha sperato il ladro) ma testi di filosofia. Ho saputo anche di un giuovine di non so quale simpatica città che proprio sulla strada verso il cinema per Lo chiamavano Jeeg Robot è stato anch'egli vittima del ti prendo questo e me lo porto a casa. Cazzo, Hiroshi, dove sei quando c’è bisogno di te? Corri ragazzo laggiù, vola tra lampi di blu. Ma se proprio ti avanza un po’ di tempo, corri anche in aiuto di noi poveri depauperati sfortunelli. Lo chiamavano Jeeg Robot, film notevole e straconsigliato ai più, anche se ormai l’hanno visto tutti. Un cinema di genere con una identità, senza dimenticarci comunque del passato e di pellicole quali Superargo contro Diabolikus (1966) di Nick Nostro, Flashman (1967), del sassarese Mino Loy, Goldface - Il fantastico superman (1968) di Bitto Albertini o l’indimenticato SuperAndy - Il fratello brutto di Superman (1979) di Paolo Bianchini. Mentre, guardando più in là non posso non menzionare a titolo di titoli, Zebraman di Takashi Miike né la serie tv che guardavo da piccolo facendo merenda, ossia Ralph Supermaxieroe con la sua grandiosa sigla. Orbene, nel grande minestrone che si sta impossessando della mia anima me ne vado a testa bassa, cercando di non esser visto e canticchiando con amarezza parole importanti: Kazekirutekken punch, punch, punch! Gigoku no akumayo uetemiro. Sora no odoru kumo ka maboroshi. Hissatsu geien Hariken.Tekio azamuku kage, kage, kage. Ore wa Hariken, Hariken Polimar…
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