LINDA LINDA LINDA di Nobuhiro Yamashita (2005) Linda is a punk rocker

In breve. Film fantastico! E non è molto semplice tentare di chiarire come in un film dove non succede niente di eclatante il risultato sia eclatante. Ambientato nel mondo liceale giapponese, avvolto da un ritmo per nulla punkettaro, dove non ci sono storie di ragazzi problematici o repentine accelerazioni emotive questa pellicola di Yamashita arriva dove quasi ogni cosa dovrebbe arrivare: al cuore. Al cuore sanguinolento, al cuore cinefilo e al cuore dei Ramones. Il film inizia con una ricerca. Tre ragazze (chitarrista, bassista e batterista) sono alla ricerca di una cantante. Il festival musicale che chiuderà l'anno scolastico è alle porte e a pochi giorni dall'esibizione loro tre si sono scoperte senza una parte abbastanza importante nell'economia di una band. Quando ormai la rassegnazione prevale sbuca (letteralmente) la loro voce, quasi affidandosi al caso; la trovano in una ragazza coreana che avendo aderito ad un progetto di scambio culturale Giappone-Corea si trova lì, nella loro scuola. Completato il gruppo rimane una sola cosa da fare, le prove. Il film è questo e si prolunga per quasi due ore. Perché allora tutto questo entusiasmo? Perché parli a sproposito di cuore proprio tu che sei un cubetto di ghiaccio secco? Cosa ha di così speciale? Ha di speciale che scardina un genere, il teen-movie, distillando l'essenzialità e mantenendone il respiro. Ha di speciale che è girato benissimo, piani sequenza, macchina fissa piazzata lì dove deve stare, carrellate. Ed ha di speciale che racconta una storia normalissima, così normale da far sembrare l'idea di farne un film un azzardo.
La scelta di fare un teen-movie così atipico è frutto di una intelligenza estetica sopraffina. Una disposizione estetica direi quasi estrema visto il canone imposto dalla cinematografia sul giuovanile (o supergiuovane). Quello dove per poter raccontare l'adolescenza la si deve seguire freneticamente: montaggio accelerato, virtuosismi di camera, musica che si vende alla forma videoclip. Ora, mi si perdoni l'ennesimo periplo teoretico (periplo?) ma il lavoro di sottrazione di immagine fatto da Yamashita è per me non dissimile da un atteggiamento... kantiano (sticazzi). Il regista giapponese tralascia infatti la carne al fuoco e il grasso che cola per lasciare libera la spontaneità di un'esperienza sia visiva che narrativa. Con una critica giudiziosa Kant parla della semplicità insita nei colori puri. Può sembrare una banalità (e scritta come l'ho scritta io lo è) ma in realtà sta ad indicare una difficoltà non indifferente in certe rappresentazioni artistiche: il far parlare l'opera. In questo caso, il far parlare la storia liberandola da accattivanti strutture. Un far parlare che quasi annulla una nostra forma di giudizio, noi semplicemente ascoltiamo. Tendiamo l'orecchio agli strumenti e alle voci. È tutto così piatto che è come se noi spettatori fossimo lì, come se anche noi stessimo in un angolino della sala prove o in quella terrazza. Non ci ritroviamo appassionati (anche la passione vive un giudizio) ad una vicenda particolare, a qualche elemento di tensione; è come se il film facesse a meno dello spettatore. Come se ciò che stiamo osservando potesse continuare indipendentemente se noi lo guardiamo o meno. Io ho avuto questa buffa impressione quando, durante la visione, ho dovuto mettere in pausa per prepararmi un toast. Ho lasciato il film sul divanetto e quando sono ritornato ho come avuto il sospetto che le ragazze del film fossero ancora lì a chiacchierare e che quindi io più che premere play dovevo sedermi di fronte a loro e proseguire nell'ascolto. E non è propriamente questo un teen-movie?
Mattoncino su mattoncino e senza neanche rendercene conto la lentezza apparente del film ci recinge, scopriamo così, a visione ultimata, che quella lentezza è un continuo morfologico. Vale a dire costituisce un significato attivo. Una distribuzione eguale di azione. Le argomentazioni delle quattro ragazze non hanno nulla di illuminante se non la luce dell'ogni giorno. Si discute di una lite - a monte della ricerca della nuova cantante -, si parla di ragazzi e di mancate dichiarazioni d'amore, ci sono incontri tra ex (senza la trappola dell'orgoglio adulto), ci sono momenti ludici e anche pesanti dormite. L'approccio prossemico di Yamashita calza egregiamente questa forma interna del racconto, cioè la sua macchina da presa gestisce lo spazio con piacevole lucidità e buon senso. Un esempio. In una scena vediamo le ragazze comunicare con la futura cantante, Son. Sono separate da una cospicua distanza e quindi urlano. La camera rimane fissa, alle spalle delle ragazze mentre non si avvicina mai a Son per tutta la durata dello scambio di battute. Questa distanza è esemplificazione per immagini della incomprensione che c'è tra di loro e - pur ovviamente non essendoci - noi quasi vediamo un gigantesco punto interrogativo e un gigantesco punto esclamativo sopra la testa di Son. Direi più che un rafforzativo è una raffinata sineddoche. Preziosità - e non leziosità - delle quali il film è pregno con l'aggiunta poi di momenti topici di egregia fattura (niente spoiler, allo spettatore il piacere della scoperta) fino ad arrivare ad un finale che - con rinnovata intelligenza - chiude degnamente il tutto.

Il passo leggero del film e la frenesia del rock. Il rock che è musica di protesta, esplosione di energia e di rabbia. Di rabbia e di protesta nel film non v'è traccia eppure il rock c'è tutto. In primis il gruppo che le ragazze scelgono di coverizzare, i Blue Hearts. Band punk-rock giapponese attiva tra gli anni Ottanta e Novanta. Linda Linda (nel titolo del film c'è una Linda in più) è uno dei loro brani, assieme all'esplosiva Owaranai Uta. Le attrici si sono trovate così bene che hanno anche deciso di pubblicare un album. E a proposito di attrici, da segnalare la batterista interpretata da Aki Maeda, vista in Battle Royale e... Bae Doo-Na. Una donna che sospetto inserirò ne il Credo di Amarti Award. Bae Doo-Na interpreta Son, la cantante; attrice vista e apprezzata in molteplici film e che conferma con questa visione di Linda Linda Linda di essere fantastica. Che dire, l'oriente è una fucina di cinema con il Cinema maiuscolo. Un cinema che sa preservare la propria identità culturale e al contempo abbracciare i generi. L'aspetto triste  è che questi film in gran parte sono destinati a restare di nicchia nel Belpaese e hai voglia a pontificare contro la pirateria. “Salviamo il cinema!”, tutto molto bello ma (specialmente per quanto riguarda il cinema di qualità) pare che sia proprio la pirateria tanto vituperata a garantire tale sopravvivenza. Film che non arriveranno mai o che arrivano troppo tardi e collocati in due o tre salette, film affossati dal bitume usa e getta. Siamo quel che mangiamo (e mangiamo bene) ma siamo anche quello che vediamo, quello che culturalmente promuoviamo o, meglio, quel che spudoratamente ignoriamo. Nota musicale a margine o comunque di seguito: a parte i brani originali la colonna sonora del film è scritta nonché suonata da James Iha (ex Smashing Pumpkins).

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