HUNGRY HEARTS di Saverio Costanzo (2014) Mamma non m’ama

Sarebbe fin troppo facile e un filino scontato lanciarmi in associazioni parentali e televisive quali Saverio Costanzo e Maurizio Costanzo e quindi mi astengo. Inoltre il Maurizio Costanzo Show andava forte negli anni Novanta così come la camicia coi baffi e Beverly Hills 90210, mentre la grappa Bocchino andava forte negli anni Settanta. Non avendo quindi dei moti simpatici ed accattivanti coi quali presentarmi parto subito con il dramma. Ad un certo punto, per qualche ragione, agli umani prende la fissa dei figli. Un impeto che si acutizza col passare del tempo, come una cagata da fare quanto prima. Uno slancio vitale che pare poi infiammarsi totalmente con l’avanzare dell’età e che porta a perseguire il proposito fino al raggiungimento dell’agognato obiettivo. Anche se magari si ha ormai l’età per essere dei bravi zii se non dei bonari nonni e anche se ormai la cacca ti esce dura. Qui - in questo non voler riconoscere un limite - si palesa in tutta la sua patetica meraviglia il nostro io e un desiderio che ormai ha assunto tutte le caratteristiche di un capriccio. Fanno da contraltare quell'altra parte di umani ai quali capita di avere figli. Ragazzine vanesie e perlopiù stupide e maschi alfa dal cazzo facile ma anche dalla cazzo di voglia di accudire un pupo. Nel mezzo di questi due universi del concepimento si pongono i fortunelli. Coloro che ad una posizione economica favorevole accompagnano una vera e propria scelta di coppia, la scelta di avere dei figli. Difficile or bene capire cosa porti – per davvero – al diventare genitori. Per dire, io mi ritrovo in una età in cui è socialmente e culturalmente lecito essere genitori ma il buon Dio, nella sua infinita misericordia, non mi ha posto innanzi il salvagente necessario al galleggiamento nel nucleo famigliare. Ossia, io non ho mai fatto nulla di realmente concreto per garantirmi un futuro, figurarsi un mio mettermi a creare un futuro altrui. Non nego però che ci ho pensato. Anche di recente. Seduto su una panchina di una graziosa piazza, ubriaco e bevendo birra. Mi ritrovo a guardare questo trittico: due giovani genitori e un bimbo che riusciva appena a camminare. La mamma se ne stava seduta e il padre e il bambino giocavano a palla. Non nascondo di essermi un po’ commosso, mi sembravano belli. Ho mandato giù una bella sorsata dalla bottiglia e poi mi sono nuovamente commosso, pensando al fatto che quella realtà mi è (e mi sarà) totalmente esclusa. Poi, in un attimo di distrazione alcolica, ecco che la bottiglia mi cade a terra. Per fortuna non si spacca ma perdo un po’ del nettare al suo interno e anche questo mi commuove. Raccogliendola e quasi in lacrime per il disastro sventato, metto a fuoco la realtà dei fatti: mi sta bene così. I fatti rimarcano che non potrei mai essere genitore di nessuno giacché faccio fatica ad essere responsabile di me stesso. In più, quasi mi si spezza il cuore all'idea che stavo per perdere il contenuto della bottiglia appena acquistata.
La scelta del diventare genitori è una cosa estremamente seria, lo diceva anche Rousseau il quale credo abbia abbandonato almeno cinque figli al loro destino. Non si dovrebbe diventare genitori per un moto di infantile fabbisogno né si dovrebbe diventare genitori per una leggerezza valutativa. In Hungry Hearts i due protagonisti diventano genitori in un modo abbastanza osceno. E da qui il mio pensare che il film di Saverio Costanzo sia davvero un bel film che però non sa argomentare con la dovuta cura il momento iniziale e quello finale (ma lo dico solo per trovarci dei difetti). A tal proposito, mi capita di interrogarmi sul come si possa sostenere che si è diventati genitori a causa di un piccolo incidente. Un uomo quando sta per avere un orgasmo se ne accorge. Mi viene davvero difficile credere che qualcuno non se ne accorga e che venga così in allegria. Il liquidino dell’amore non ti scorga come un attacco di diarrea. Lo senti che sta per arrivare. E questa mia elevata ed empirica questione mi porta a credere che Jude (Adam Driver) scelga di avere un figlio. Nonostante Mina (Alba Rohrwacher) lo inviti con largo anticipo ad uscire. Sarà forse questo atto contaminante e non partecipativo di entrambi a viziare il resto? Così come ci viene mostrato sembra che quello di Jude sia un ottuso gesto di appropriazione. Lui vuole Mina e l’unico modo per tenersela stretta (lei è già pronta a ritornare alla sua esistenza e al suo lavoro) è bloccarla. Bloccarla appesantendola con un feto nella pancia.
Mina si ritrova costretta ad essere madre e se ne prende tutta la responsabilità. Una responsabilità in eccesso ovviamente. Lei rimane nel suo mondo, o meglio, torna nel suo mondo (ormai deviato dagli eventi) e riadatta sé stessa e il figlio a quel contesto. Non si proietta in avanti ma ritorna indietro, anche se torna ad un passato che non potrà più riavere. Quello che ritrova è un microcosmo collassato, inesistente (il passato mutato). Lei si adagia tra quei resti carbonizzati e porta con sé il figlio. Lo abbraccia. Lo stringe a sé in una presa che è soffocante. Quasi come a voler dire: io non ho avuto modo di crescere e neanche tu crescerai. Ma in realtà l’atteggiamento alienato di Mina non è tanto una vendetta inconscia ma un semplice atto iper-protettivo. Lo scopriamo pian piano, nello svolgersi del film. Per quanto oppressive, violente, torturatrici, le sue azioni rispondono ad una logica di amore. L’amore non è forse un filino irrazionale? Or bene, si capisce che Mina non era ancora sufficientemente pronta a diventare madre. I suoi sogni probabilmente erano altri ma la favola finisce quando il cacciatore uccide Bamby, e il cercare di ricostruire il bosco magico sulla terrazza di casa non aiuta un granché. Jude invece, diventa padre a piccoli passi, inizialmente nutrendo e poi cingendo il figlio. E pensare che su di lui ci avrei scommesso poco. Lo conosciamo subito con dei problemi intestinali a causa di qualcosa che ha… mangiato (una scena notevole, anche perché adoro e odoro quando si parla di merda) e poi lo scopriamo un po’ impacciato ma convincente nell'affrontare le questioni di alimentazione. Due genitori e due sensi di responsabilità differenti. Già, la responsabilità. Prendersi cura di un altro essere umano credo sia più difficile dell’infilarsi un uovo nel culo senza romperlo. Anche in questo senso quel desiderio (egocentrico) di diventare genitori di qualcuno, il bisogno di un erede genetico, porta al trascurare con facilità il fatto che un figlio bisogna anche crescerlo.

Per quanto riguarda il bambino Jude e Mina viaggiano su due strade diverse, anche se entrambi vogliono proteggerlo. Mina vuole proteggere il figlio dal mondo. Jude vuole proteggere il figlio da Mina. Un contrasto che nonostante li opponga l’uno all'altra non sfalda la base del loro rapporto. In qualche modo si vede che i due si amano. Uno degli elementi che mi ha portato ad apprezzare il film. Jude nonostante l’incubo domestico non smette mai di amare Mina. Da dire che io non ho letto il libro Il bambino indaco di Marco Franzoso – da cui il film è tratto – e quindi non posso che orientarmi sulle scelte del regista, sia nei meriti (i debiti con Rosemary’ Baby mi sembrano abbastanza evidenti, voluti o meno) che nei demeriti. E come detto, i meriti sono davvero tanti. Il racconto si struttura in maniera amabilmente lucida, lentamente ci si addentra in questo appartamento e si ha quasi l’impressione di starci lì dentro. Costanzo è molto bravo nel far parlare i luoghi, nel renderli un altro personaggio. I luoghi sono funzionali alla storia, vuoi che sia il cesso di un ristorante o l’inquieto chalet di un cacciatore. In tal senso la scelta di New York è perfetta. Fuori, una città immensa e dall'hamburger facile. Dentro, un nido affamato che si chiude in sé stesso, che si restringe. Formidabile e rischiosissima la scena girata con l’effetto fisheye. Il cucinino che avvolge i protagonisti e il percepire da una parte la difficile separazione tra i due – quasi uno scollamento – e dall'altra avere un’idea ottica dell’implodere della mente di Mina. Or bene, una grande regia e un gran bel film. E due oltremodo ottimi protagonisti. Meritata, in tal guisa, la loro Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia. Adam Driver si rivela essere l’attore giusto al momento giusto e Alba Rohrwacher è una conferma, ossia una attrice italiana talentuosa ed intelligente, nonché una donna con una voce che a me piace – per usare un eufemismo - un sacco. Credo di voler avere un autografo della voce di Alba Rohrwacher. Tutto fichissimo quindi a parte, come detto, una debole motivazione spermatica iniziale e quella evoluzione nel finale. Un po’ troppo marcatamente thriller in un film che invece fino a lì si era mosso su toni più sottili. In termini di menù, per non farsi proprio mancare niente, abbinerei ad Hungry Hearts anche la visione di un altro notevole film italiano: Primo amore. Per una serata all'insegna della mutazione di coppia.

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