HOLY MOTORS di Leos Carax (2012) Céline in limousine

Nella prefazione al suo Sei personaggi in cerca d’autore, Pirandello avverte il lettore di appartenere disgraziatamente ad una precisa categoria di scrittori: gli scrittori con una natura “propriamente filosofica”. Vale a dire scrittori che d’improvviso vengono colpiti da una immagine viva, una immagine che deve poi essere condotta verso un senso che la valorizzi. Dare voce ad una immagine, rifuggendo dal simbolismo allegorico. Cosa ci azzecca ora Pirandello? Non lo so. Forse perché non mi viene difficile immaginare un medesimo approccio creativo nel cinema di Carax, in particolare per questo Holy Motors. Partire dall’immagine di una anziana donna - piegata dal peso del tempo - che chiede l’elemosina per arrivare a raccontare una e più vite, tutte legate dal motore esistenziale. Raccontare quindi l’esperienza del vivere - come per l’appunto direbbero gli esistenzialisti francesi di nero vestiti - attraverso un attore che recita la recita dell’Essere, un attore che pedina il vivere all’interno di una macchina e che si addentra nel personaggio e nel suo viaggio esperenziale. Ecco quindi che abbiamo un protagonista (l’imprescindibile Denis Lavant) che assolve ora dopo ora ai suoi impegni di lavoro. Muta e ogni mutazione è una ricerca, una esplorazione. L’esistenza in un labirintico meccanismo diegetico di esistenze e nell’esistenza del cinema stesso. Il cinema come motore artistico e il cinema come una fila di specchi che riflettono l'alterità e la moltiplicano. Gli appuntamenti del nostro quotidiano, le nostre variegate versioni. Sto delirando? Sì, è probabile.
Il rischio dell’autoreferenzialità è elevato, in un film come questo puoi dire tutto o puoi dire niente. Come un’opera d’arte contemporanea che può in buona sostanza essere un bluff ben quotato. Per nostra fortuna Leos Carax non cede unicamente a sé stesso ma è partecipe, supera la parete e anzi ci entra proprio dentro. Trova la giusta angolazione per filmare e pedinare i suoi soggetti umani, animali, meccanici. Non vi è forse altro modo oggi di raccontare l’uomo e le sue maschere se non con questo inusitato sguardo; narrare l’uomo e i suoi ruoli, l’uomo e la sua immersione nel mondo-spettacolo-palcoscenico. Gli strati sono la nostra quotidianità, gli strati epidermici, gli strati affettivi, gli strati soggettivi. Non a caso, nel gioco di maschere-esistenze, quando uno dei personaggi di Monsieur Oscar diventa padre, costui esige la verità. Non si può mentire quando ormai è chiaro di essere su un palcoscenico. Anche se poi la menzogna del e sul (o in, tra, fra e su per giù o abete pioppo larice pino, sega raspa pialla martello, vra vra vra, visc visc visc, tic tac toc, tic tac toc tic), anche se poi la menzogna del/sul palcoscenico chiama una coerenza scenica e quindi una doppia menzogna.
Coerenza scenica che può concedersi poco. Superlativo a tal riguardo il momento di un addio, in una stanza da letto. Momento di congedo tra uno zio e una nipote (Élise Lhomeau, tra l'altro molto figa) subito smontato dall’urgenza di altri appuntamenti. Non c’è scampo alcuno, a meno di non avere una Céline che ti scarroza da una scena all’altra. Holy Motors è un film che ci conduce nella naturale attrazione per il viaggio ed è un film sul cinema che parla di esistenza e di false verità e mi si perdoni l'eccesso di corsivi o di virgolette (facciamo attenzione con le virgolette...). Un viaggio espanso che si veste di mutazioni e ogni mutazione è una dilatazione di una verità o una idea di verità. È iconografia, quasi una missione, è una recita ineludibile e vitale. Vitale perché paga, in qualche modo, un debito ontologico e cinematografico. Or dunque il motore sacro. Il motore sacro ce lo abbiamo tutti, è il nostro vivere. Gli appuntamenti del nostro quotidiano, le nostre multiformi versioni all'interno degli ingranaggi pelosi della pelosa vita. Il motore che ci scuote dagli abissi originari. Come ben dice l'Anassimandro di Mileto, è un movimento che ci trascina fuori dal pesce che ci ospita e che ci getta nel sociale e nelle sue problematiche. La vera nascita è al di fuori dall'origine o al di fuori dalla limousine se proprio vogliamo modernizzare l'idea del pesce.

Ma mettendo da parte questi miei pipponi allucinanti (i pesci!?), Holy Motors, ben donde e in ogni dove. Il motore o la sacra esperienza del vivere, quella cosa che, come il film di Carax, non è immediatamente categorizzabile se non come una formazione sul campo. Un formare lo spettatore o il lettore, o il vivente lasciandogli respirare il vissuto o - in questo caso - il veduto. Muovendosi da una vita all’altra, a seguito di un regista che grida Azione! Un’azione dal pre-cinema, dal movimento-azione di Étienne-Jules Marey al primo passo fuori dalla limousine, al cuore pulsante dei fanalini di coda, al pubblico da destare dal sonno della pantomima blando-ricreativa del media contemporaneo, alla maschera da mettersi per salvarsi la maschera (a tal proposito vedisi l'Édith Scob di Occhi senza volto). La sacra esperienza del vivere, quella cosa che, come il film di Carax, non è immediatamente categorizzabile se non con una indicazione che prendo or ora a prestito da Rorty (il filosofo ironico): edificante. “I filosofi (scrittori, cineasti...) edificanti distruggono a beneficio della loro propria generazione”, sono reattivi e offrono “satire, parodie e aforismi”.  In effetti c'è distruzione nel motore, nella azione di Holy Motors. Direi che c'è decostruzionismo e soprattutto c'è il fatto che tocca allo spettatore agire e lasciar perdere recensioni assurde e ripetitive come questa. Allo spettatore agire or dunque e ben donde, allo spettatore muoversi nel film a patto però di non scordarsi di ridere, perché bisogna assolutamente ridere prima della mezzanotte. 

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