HEAVEN KNOWS WHAT di Ben e Josh Safdie (2014) Il fatto quotidiano
Siamo dei vagabondi e or dunque siamo nati per correre. Così canta Bruce Springsteen in Born to Run, dall'album omonimo uscito proprio quarant'anni fa dalla data in cui sto scrivendo questo post ma non da quella di pubblicazione (e quindi non ha senso quello che sto blaterando). Un brano scritto dal boss nella sua stanzetta, immaginando che quel titolo che echeggiava nella sua testa da un po' potesse calzare per un film. Visto la colonna sonora di codesta pellicola non penso che quel brano e le sue epiche sonorità, possano aderire al film dei fratelli Safdie. In Heaven Knows What non vi è nulla di epico né di marcatamente struggente. I protagonisti corrono ma non lo fanno tanto per un afflato di libertà che ossigeni il cuore ma per qualche grammo di eroina che innaffi il sangue (sto diventando un vero poeta di ‘sta cippa). Al limite sarebbe più calzante Hungry Heart ad accompagnare le vicissitudini di questi allegri giovani a spasso nell'Upper West Side di New York. Tutti quanti abbiamo un cuore affamato, tutti quanti vogliamo avere una casa, non importa quel che dicono gli altri, non c’è nessuno che ami stare solo. Per drogarsi infatti bisogna cercare di vivere all'interno di un gruppo. Per procurarsi dosi di bags, per farsi due chiacchiere e una suonatina di chitarra, per danzare ubriachi e fatti, per farsi qualcuno fatto mentre anche tu sei fatto e realizzare in un orgasmo sinaptico che ciò costituisce un dato di fatto. Un dato di fatto è una presa d'atto attuata da un tossicodipendente. Il tossicodipendente prende atto del suo vivere alla giornata, del suo dover dormire ove fa più caldo, del pensare a come procurarsi i soldi per la droga, sapendo che prima bisogna procurarsi i soldi per la metropolitana perché se no come lo raggiungi lo spacciatore. Insomma, la vita di un fatto quotidiano. Un fatto quotidiano che non trovi sicuramente in edicola ma all'interno di vecchie case, sotto qualche ponte, in qualche discutibile pensione. Certo, in linea di massima il tossico, il vagabondo, l'alcolizzato non lo vedi. O meglio, sì lo vedi ma poi distogli lo sguardo o lo metti tra parentesi come in una epoché husserliana. Magari fai come Massimo Gramellini che trovandosi faccia a faccia con la povertà, durante un suo viaggio in India, decise di non mangiare. Come poi lui stesso aggiunge, invece di mettersi a stecchetto avrebbe dovuto “riempire un borsone di cibo” ma non lo ha fatto giacché “avevo lo stomaco chiuso per il troppo dolore e mi consumavo in uno strazio sterile”. Solite frasi alla Gramellini che conquistano i cuori di grandi e piccini. Secondo me invece avrebbe fatto meglio a non darsi alla scrittura così poi da destinare il denaro non guadagnato dai suoi romanzi al prodotto interno lordo dell'India. Lordo che cola, si potrebbe dire.
Lordo che non colava nella vita di Arielle Holmes. Diciannovenne, senza casa, tossicodipendente perdutamente innamorata di un giovane uomo disperato quanto lei. La vita di Arielle ha una svolta quando si imbatte in metropolitana nello scapigliato regista Josh Safdie. Lui sta cercando materiale per il suo prossimo film e lei gli offre il materiale per qualcos'altro: la sua storia. Una storia poi raccontata in un libro da lei mai pubblicato, Mad Love in New York City. Il regista, Josh Safdie, rimane conquistato dalla giovane fanciulla e si appassiona alla sua storia. Se ne appassiona a tal punto da abbandonare il progetto del film per il quale se ne andava in giro a cercare ispirazione. Un film ci sarà, ma sarà quello su Arielle Holmes e ad interpretarlo sarà la stessa Arielle. Qualche anno dopo, Arielle dirà di quell'incontro: “Ero sicuramente nel posto giusto al momento giusto. Ho incontrato la persona giusta.”* Incontrare la persona giusta è indubbiamente positivo, soprattutto quando hai fatto della tua vita un luogo di abbandono totale. Ecco quindi Heaven Knows What e il suo bagaglio di giovani con buste di plastica in mano che discutono di problematiche inerenti al mondo del degrado e delle buste di plastica. Cose a caso captate quasi a caso da una macchina da presa che talvolta sembra esser capitata lì a caso. Un mondo che potrebbe far parte del circuito mumblecore, orrida espressione per designare un certo tipo di cinema indipendente americano. Ed effettivamente a firmare il film dei fratelli Safdie vi è anche Ronald Bronstein (al montaggio e alla sceneggiatura), quello di Frownland. Film intensamente mumblecore. Or bene, come detto, nella vicenda che ricalca la storia di Arielle (Harley nel film) si mugugna parecchio. Spesso in modo quasi incomprensibile a parte l'immancabile Yo. Parole che accompagnano movimenti incerti e goffi e facce con occhi spenti. Quel tipico sguardo che chi frequenta gli ambienti dei baretti e circoletti o dei parchetti ben conosce. Uno sguardo che in fondo ha un che di certezza. Me ne sto nella mia postazione, quell'angolo tra il muro e l'albero e mi sento bene nel mio stare male. Ho la certezza che starò qui e che ci sarà almeno per questo pomeriggio la mia dose di alcol quotidiana e la mia dose di dose quotidiana. Certo, so che poi verso sera ne avrò ancora voglia, una voglia che esploderà violentemente in un bisogno. Ma per ora non ci penso. Per ora il mio occhio spento è un buon segno. Mi sento a mio agio. Il vero problema della giovane Harley è, manco a dirlo, l'amore. Questa assurda cosa nella quale noi esseri viventi ogni tanto incappiamo.
Il tormento amoroso di Harley si chiama Ilya (Caleb Landry Jones, visto in Antiviral). Ilya ama Harley ma quando lei lo tradisce baciando un altro tizio (questo però nel film viene omesso), Ilya fortemente scosso inizia a invocare una prova d'amore. Un qualcosa che testimoni dell'amore che lei prova per lui. Peccato che Ilya è un tossico e le sue esternazioni vivono di una esaltazione un pochino eccessiva. Perché? Perché Ilya vuole come prova d'amore il suicidio della sua amata. Mi ami davvero? Allora ammazzati. Una prova d'amore che incamera ben donde delle difficoltà a livello pragmatico. L'aprirsi del film in questa fase della storia tra i due protagonisti può quindi dar adito ad una distorsione eccessiva. Per quanto disperata, pare che una storia vera e propria tra i due ci sia stata. Quella parte che il film esclude, facendoci apparire Ilya come un individuo profondamente rompicoglioni. Ad ogni modo, tra l'invasivo suono dei synth che creano un che di Berlino degli anni Ottanta e le note note del Debussy di Clair de Lune, ci muoviamo tra le strade di una Manhattan che è a chilometri distanza da quella borghese, dotta, spiritosa e acuta di Woody Allen. Qui ci ritroviamo in una New York difficile da riconoscere. Una New York assente ma allo stesso tempo presente. Nei campi lunghi si evidenzia come il mondo fa quel che può per evitare questi drogati urlanti. Facce di gente che lavora o che tira a campare, passanti che appena si imbattono in personaggi come Ilya e Harley subito accelerano il passo o si adombrano o, come Gramellini, si consumano in uno strazio sterile. Il sospetto che molte scene siano state girate, come dire, dal vero, è forte.
Bisogna or dunque riconoscere ai due fratelli registi un certo talento. La loro macchina da presa scruta, sovente in modo molto ravvicinato, il vissuto e la dissoluzione dei volti di questi giovani dediti al nulla o all'annullamento. Giovinastri e meno giovinastri che - come dicono i registi** - cercano di far passare il tempo tra una dose e l'altra. La cocaina ti apre una finestra di quattro ore, quattro ore che costituiscono il tuo paradiso, o il tuo luogo di sosta con un senso. Proprio come in Heroin dei Velvet Underground, quando la roba inizia a scorrere non ti interessa più niente. Quando l'eroina è nel sangue e quel sangue è nella tua testa, ringrazi Dio perché stai bene come un morto. E ringrazi Dio del non essere cosciente. Il resto è tempo da far passare. Magari con un giro in moto, magari rubando bevande energetiche, magari litigando con tizi. Magari tentando di far passare un filo nella cruna di un ago. Un'impresa più difficile che centrare una vena e da qui appunto l'adagio - già errato di suo nella traduzione – “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un tossico centri la cruna”. Or bene, a me Heaven Knows What è piaciuto. Perché? Perché sì. Non ho voglia ora di propinare una serie di cose quali il fatto che mi è piaciuta la regia, mi sono piaciuti gli interpreti, mi è piaciuto quel modo credibile di mostrare il calore che si rintraccia nei piccoli momenti quali lo stare accucciati su un autobus, il fare di un angolo di letto tutta la tua casa. Il creare il tuo spazio nella strada nonché il sorprenderti - ironicamente - del dato che possa cascarti della merda in testa. C'è del tatto in questo. C'è un tutto in questo tatto e c'è del calore in quei cappotti sporchi. C'è un abbraccio da trascinarsi con sé. E ora... SPOILER!!! SEGUE SPOILER: nella finzione cinematografica Ilya si ritrova solo e in un incendio. Nella realtà un incendio c'è stato, ma è accaduto nell'appartamento di Arielle e Ilya a Jersey City. Un appartamento di merda e topi. Ad Ilya gli si son bruciati non i topi ma i capelli nonché le mani, salvate poi con innesti cutanei. La morte di Ilya è avvenuta molto tempo dopo, per overdose. Il suo corpo è stato ritrovato a Central Park.
*http://www.theguardian.com/film/2015/jul/02/arielle-holmes-homeless-drug-addict-heaven-knows-what
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