FRANK di Lenny Abrahamson (2014) The chinchilla experience

Ognuno di noi possiede un talento particolare, ad esempio il mio coinquilino cagava due volte al giorno. Una forma di talento per certi aspetti invidiabile e per altri aspetti no. Io non amo molto cagare e, a dirla tutta, non amo molto neanche gli orecchini del mio coinquilino; li trovo un pochetto troppo orecchini. Perché per giunta farsi pendere qualcosa d'altro? Non è davvero troppo insostenibile sostenere lo scroto? Tornando al talento del cagare, be’, sedermi, produrre un rifiuto, pulirmi fino a quando non vedo il sangue e quindi il non capire di essermi pulito a sufficienza costituiscono per me una problematica non da poco. Altri talenti, quelli più palesi, possono essere il diplomarsi, il laurearsi, il bere, l'avere rapporti anali con sé stessi, l'invio di sms, il lancio del disco, lo spelling coi rutti. Di per sé cotali orpelli costituiscono dei talenti. Oltre a questi vi sono altre forme di talento, i talenti artistici. Be’, ecco, in buona e claudicante sostanza io detesto gli artisti. Li detesto perché gran parte delle persone che si definiscono artisti non lo sono mentre quelli che lo sono evitano di definirsi tali. Inoltre vi sono anche coloro che non si definiscono, incasinando il tutto. In cotale periodo storico il talento e l'arte han subìto da sùbito un fragoroso ed irritante processo ermeneutico. Oggi uno dei talenti è quello di sapere riconoscere un'opera d'arte come tale. Il discorso, ad ogni modo, qui si farebbe complesso e rischierei di scrivere troppe stronzate e quindi ecco Frank. Dopo Garage (un film in fin dei conti non distante da questo) Lenny Abrahamson ci pone innanzi l'affine tema del disagio e della incomprensione. La stoltezza umana innanzi ad altre forme umane. Ma se in Garage la differenza era differente di per sé (ossia colui che non fa parte della comunità va espulso), in Frank la differenza si ritrova addosso una forse ancora più insulsa minaccia: la copia e la mediocrità. Ossia l'individuo senza talento che cerca di copiare la persona con un talento. Peccato che alcune cose inerenti al mondo dell'esteriorità oltre o ti appartengono o non ti appartengono. Non puoi inventarti musicista se non lo sei, non puoi inventarti pittore o fotografo se non lo sei e non puoi inventarti scrittore se non lo sei. Alcune cose non le puoi costruire ma le devi essere e se non le sei non puoi pensare di diventarle. Di questo, in sintesi estrema e all'occorrenza edibile, parla Frank.
Frank non si mette una maschera per celarsi, si mette una maschera perché lui è quella maschera. Una capoccia sferoidale ispirata dai disegni di Max Fleischer, il noto papà di Betty Boop. Lui è quella forma. Il suo sé creativo è quella maschera. Una maschera che lo tutela da un mondo per il quale tuttavia non si prova avversione; una maschera che non è mera o scontata renitenza dal comunitario. Un po' come un cerotto, diciamo. Mi avvolgo quel cerotto sulla ferita non perché voglio isolarmi da voi ma perché ho una ferita. Voglio sì partecipare dell'esteriorità o alterità ma non voglio bruciarmi. Voglio poter così io esprimermi e guardarmi intorno, aperto e chiuso al mondo. Mi guardo intorno e mi piace quella parete che altri hanno sollevato. Una parete, un muro, che nella sua estetica occulta un proteggersi. I muri servono a questo, a proteggersi. Ma è bello che quel muro, quella parete, venga esteticamente resa piacevole e non soffocante. Mi piace il vostro muro e mi piacete voi. Non vedere or dunque questa mia maschera come una pagliacciata, non vedere questa mia maschera come un pirandelliano moto pirandelliano. Questa mia maschera mi appartiene così come mi appartiene un microfono quando ho bisogno di dire. Non mi sto nascondendo, mi sto esprimendo, mi do. Io non mi nascondo e quindi, per favore, se puoi, non cercare di strapparmi via dalla faccia questa maschera. Non cercheresti mai di strappare via un gesso da un braccio fratturato, nel farlo non vedresti il mio braccio. Vedresti solo la mia impossibilità di muovermi. Non cercheresti di strappare la fantasia da un bambino, la carta igienica da un bagno, i peli da un naso o il tatto da una mano. Nel farlo attueresti una qualche forma di stupro ed io non potrei mai esserci. Mi allontanerei nella frattura o nello strappo. Da cotale punto di vista (anche se non so quale visto le stronzate che sto scrivendo a raffica) è difficile dire cosa sia la mediocrità. 
Definire la mediocrità ci pone ad un livello di superiorità che sovente non ci appartiene e quindi più che definire l'esteriorità - il luogo ove poggia il nostro strabico sguardo misericordioso - cosa buona e sacrosanta sarebbe rapportarci al nostro essere in modo mediocremente... ontologico. Rapportarci al nostro essere e vederci noi mediocri. Una mediocrità auto-circoscritta. Lo so, non valgo un cazzo, e non mi interessa. Lo so, non ho nulla da dare al mondo, e lo so. Lo so, faccio schifo e sono oggetto di nausea, e lo so. Lo so, non ho nulla di interessante da dire, e lo so. Lo so, sono brutta e i ragazzi non mi guardano, e lo so. E quindi mi rapporto a me, e non indosso una maschera, la appartengo (T'appartengo, cantava Ambra nel '94). La consapevolizzo. E al di là di puerili e ridicoli neologismi so di essere quello che per gli altri non sono. Non sono bello, non profumo, non sono interessante, non sono intelligente, non sono l'orgoglio di mamma e papà, non sono il miglior ragazzo/a che si possa desiderare. Ho il cazzo piccolo e storto, le tette piccole, la pancia pingue, il culo flaccido e rugoso. Ho i peli sovrapposti ad altri peli. Lo so. Lo so e me ne faccio carico. Sostengo il mio rapporto ontologico. Detto questo, posso quindi liberamente essermi. Posso produrre quello che di me mi è sufficiente, e non quello che altri si aspettano da me. Posso cagare capsule di idrogeno azotato in forma Y ma posso anche fare la mia musica, posso scrivere le mie parole, posso appartenermi. Io non indosso una maschera, io finalmente sono una maschera. E adesso giura. Ti giuro amore un amore eterno se non è amore me ne andrò all'inferno.
Sì, forse ti saranno venute in mente classiche reminiscenze dal tempo delle medie; questioni in particolare legate a quel pingue uomo di nome Hume. Ed in effetti anche io ci ho un pochetto pensato sai, a posteriori, a seguito di Frank e del creare di per sé. Pensato a cosa? All'atto del creare. Io creo, cosa c'è prima del mio creare: chi diamine sono io? Chi sono io? Mi è sufficiente sapere che penso per pensare di esistere? Ho sufficiente presunzione di me? Hume, grattandosi serratamente il suo cavo popliteo direbbe: No! Non puoi sapere mai per davvero di te, puoi solo avere percezioni di te. Il tuo io è il traffico in tangenziale all'ora di punta. Una moltitudine incrociata di plastica e metallo, suoni e luci; fasci in congiunzione e in successione. Un fascio di percezioni ove, forse in una eco là nel didentro e nel didietro, risiede un me. Un me che è un suono, una naturale conseguenza dei miei passi e della mia voce in un teatro incasinato. Sto delirando? È probabile, ma anche a Hume è successo (per sua stessa ammissione si ritrovò a vagare nel labirinto delle sue teorizzazioni non sapendo in che modo riprendere quanto da lui stesso scritto e chiudendo il tutto con una capatina alla locanda). Ma, se mi assecondi e se mi permetti di infilare il ditino, io non penso che tutto ciò si distanzi dal mondo di Frank. Ossia, la nostra identità – percezione - è artefatta. Il mio me è dato dalla percezione che viene dopo. La finzione, la finzione di un me è cosa per noi imprescindibile e anzi è faccenda che ci costituisce e ci tempra o ci deprime. Quale miglior modo quindi di assecondare il mio me sempre mancato con un altro aspetto apparente? Una maschera.
Sì, una maschera. L'apparire di una apparenza. Indosso una maschera, è lei a custodire quello che è il mio creare. Il mio me fittizio numero 1 non ne sarebbe in grado, troppo impegnato a cercare di comprendere quando è arrivato il momento giusto per ammazzarsi o per scolpire sculture di cazzo con l'argilla. Delego quindi al mio me numero 2, quello con la maschera, l'incarico del creare. Libero di creare, senza contaminazioni, senza giustificazioni, senza pubblico, senza problemi di assenza. Ovviamente, in linea di massima, andare a spasso con una faccia enorme può esser visto come bizzarro. Lo è? Sì, sì se si è nella identità numero 1 e si è predisposti all'identità sottostante, cioè la numero meno 1. Ma l'arte e la bizzarria che ne consegue o che la implementa (implementa?!) non risulta questione bislacca solo ai neofiti della cartapesta o ai comuni mortali. Come direbbe Freud – ruttando - la genialità, la sua analisi, sfugge anche alla psicoanalitica. “Persino la genetica non abbandona l'ipotesi che alcuni tipi di disturbo mentale e la genialità creativa possano costituire due varianti delle stesso gene o che, per lo meno, ci sia una trasmissione ereditaria combinata per il rischio psicotico e per il talento creativo.”* Il creare, che sia musica o che sia lotta alla costipazione, richiede un notevole sforzo. Uno sforzo che non è immune dal generare qualche squilibrio mentale. In tal senso, addentrarsi nella creazione con un costume può non solo aiutare ma migliorare, giacché legittimati ad essere strani. A riguardo, avere un documento medico ufficiale può aiutare. 
Or dunque e ben donde Frank. Per quanto possa valere (ne dubito) questa mia non richiesta incasinata e da me medesimo incomprensibile recensione, il film di Lenny Abrahamson è ovviamente un film verso il quale vale imprescindibilmente la visione. Perché? Perché guardi il film, pensi che ti è piaciuto. Un paio di giorni dopo ci pensi ancora e dici: Cavolo! Frank mi è davvero piaciuto! Io ho sentito questo è spero che anche tu possa avvertire lo stesso, avere cioè la voglia di rivederlo un'altra volta. E, giusto per dovere di malmostosa cronaca in appendice, il film prende spunto dal comico e musicista Chris Sievey (e a lui la pellicola è anche dedicata). Ma non è propriamente un episodio preso pari pari dalla vita di Sievey e lo stesso Frank non è il Frank Sidebottom di Sievey. Il film, un po' come A proposito di Davis dei Coen è una libera reinterpretazione, è un altro luogo che parte da un mondo reale. Il mondo dove Jon Ronson (giornalista nonché scrittore de L'uomo che fissa le capre) si ritrova a sostituire il tastierista del gruppo Frank Sidebottom. Ossia il gruppo di Chris Sievey nelle vesti di Frank, l'uomo con la testa sferoidale. È la storia dell'incontro tra Jon e Frank ma all'interno di una dimensione alternativa, quella dove Jon non è propriamente Jon e dove Frank non è propriamente Frank ma un dichiarato compendio di Harry Partch, Captain Beefheart, Daniel Johnston e naturalmente il Frank Sidebottom di Sievey. Una dimensione alternativa – μετα - sceneggiata dal medesimo Jon Ronson. Detto questo non so che altro dire giacché ho sovente difficoltà a scrivere, per questioni meramente pratiche. Un'ultima cosa brevissima da dire è però Michael Fassbender. Michael Fassbender è un gran figo, così figo che anche quando non gli si vede la faccia o il pene è comunque figo. E non avrebbe neanche bisogno di svelarci le sue espressioni facciali. È sufficiente il suo corpo. Un corpo capace di sciorinare sicumera nei momenti creativi di lieta ispirazione ma capace altresì di farsi piccolo nel raccontare un disagio esistenziale o una défaillance musicale. L'idea che dietro a quella maschera ci sia Fassbender è il tocco fondamentale nella riuscita del film. Poi, tra gli altri, vi sono una isterica Maggie Gyllenhaal e Domhnall Gleeson (Black Mirror, Questione di tempo). Loro due a mio irritante parere sono protagonisti (no spoiler) di alcuni dei momenti meno riusciti della pellicola, momenti che rischiano di banalizzare un film che non si merita cotale rischio. Per il resto…
Per il resto da parecchio cerco di capire (senza sforzarmi troppo) come si faccia la E verbo con la tastiera del mac. Non riuscendo a scrivere È se non copiandolo da terzi e incollandolo mi limito a digitare la E verbo con l'apostrofo: E’. Una forma che in fin dei conti mi fa pensare ad una sorta di accompagnamento dell'essere, una forma tronca che lascia adito e alito ad un'altra poco chiara figura. Ma non è (È) di questo che voglio naturalmente disquisire or ora, l'ho scritto solo perché non si pensi che non conosca la differenza tra E verbo ed E apostrofo. Tuttavia, cotale ininfluente digressione mi aiuta nell'avventurarmi all'ultimo in quello che l'essere umanamente percepito rappresenta o vorrebbe rappresentare, ossia una dislocazione che spesso necessita di un aiutante. Come scrive Bataille ne L'esperienza interiore (con una nuova postfazione di Enrico Ghezzi), alla base della vita umana esiste un principio di insufficienza e neanche i geni ne sono risparmiati, anzi, ai geni è impedito di essere semplici. Quale ingombrante mancanza. Nei geni, nei talentuosi, in ogni dove di ogni noi. Forse sarebbe meglio tutelare il libero esercizio della mediocrità. E sarebbe meglio tutelare il libero esercizio del proprio malessere. Prendere il furgone e come i Fugazi prender casa lungo la strada e poi come Justin Vernon dei Bon Iver adottar la casetta nel bosco come studio di elaborazione e registrazione. Oppure, per farla davvero breve basterebbe solo intonare nella propria stanzetta da studente fuori corso liriche spigolate da decadi andate: Ti giuro amore un amore eterno, se non è amore me ne andrò all'inferno. Ma quando ci sorprenderà l'inverno questo amore sarà già un incendio. Lo grido sempre mille volte a sera ma disperata come una preghiera non voglio più svegliarmi sola sola se non ci sarai. Prometti, per sempre sarà, prometti, indietro non si tornerà.


*Questo non lo dice Freud ma Alonso-Fernández Francisco nel suo Il talento creativo. Tratti e caratteristiche del genio, un saggio che eviterei anche di consigliare. Al massimo prendilo in biblioteca, la collocazione è questa 153.35 ALO (sorprendente il sapere che grazie alla classificazione Dewey è possibile orientarsi in contesti geografici eterogenei).

Commenti

Post popolari in questo blog

MUKHSIN di Yasmin Ahmad (2007) Il mondo sopra un albero

NYMPHOMANIAC di Lars von Trier (2013) Plateau orgasmico

BOJACK HORSEMAN di Raphael Bob-Waksberg (2014) Foto di gruppo con cavallo