FAUST di Aleksandr Sokurov (2011) La visione della figa da vicino

Al termine dell'opera ho avuto qualche seria difficoltà a muovermi, per via di un monumentale ingrossamento dei testicoli. Il film del venerato maestro mi ha sfrantumato i coglioni in un modo atroce lasciandomi un profondo solco alla base dello scroto. Ed è pur vero che Sokurov lascia il segno, sia in film che mi vedono più partecipe come Arca russa sia nel suo essere un uomo evangelico. Ma procedendo con ordine (ma perché non proseguire con disordine?!), si può gridare al capolavoro strappandosi barba e capelli? Io bisbigliando all'abbaglio mi son tirato via un pelo da una palla. Peli di palla [a onor del vero va detto che a volte quando urino, preso dalla noia, mi strappo peli pubici]. Scempiaggini a parte, dovute al cambio di stagione o al jet lag del passare dalla stanza A alla stanza B, la noia autoriale suscitatami da questa fatica di Sokurov non può essere ovviamente una banale noia. Non la si può nemmeno chiamare propriamente noia ma un effetto disatteso. Tralasciando la rilettura di Goethe e azzerando i vari rivoli esistenziali è a partire dalla messa in scena che Faust non decolla. Il film inizia dall'alto; dall'alto di Goethe e dall'alto di un velo di foglia di Forrest che scende sinuoso su un ottocentesco villaggio rurale e campestre. Il tutto è reso con un digitale non proprio irresistibile ma nel contesto di un'estetica perniciosa anche un digitale zoppicante fa buon gioco; lo sapeva bene Fellini, l'evidenza della finzione che non intacca la storia ma che anzi... Il digitale, dicevo, parte dalle nuvole. Da un Alto riflettente (immagine oltremodo possente quello specchio), quasi a smascherare anche l'occhio registico o la sua non presenza, si cade giù e ci si ritrova innanzi ad un pene. Tanta strada per un cazzo. È uno dei rischi del passare da Platone ad Aristotele.
Ma non è il pene l'esito, l'esito dovrebbe essere la ricerca dell'anima. La domanda sull'anima, la domanda sul confine tra cielo e terra, la domanda sul segno (o indice), la domanda sul dove dirigersi. La domanda sulla domanda nonché la domanda sull'uomo e il suo posizionarsi. La prassi del dottor Faust (interpretato da Johannes Zeiler, un curioso morphing tra Ralph Fiennes e Fabio De Luigi), nello scavare nel superfluo per arrivare alla conoscenza. A tal proposito può aiutare cosa i greci antichi (basti sbirciare Eraclito) pensavano a riguardo, ossia che la conoscenza viene prima dell'azione. O meglio, la conoscenza è a priori di qualsiasi azione. Il Faust di Sokurov si trova in un inquieto luogo adiacente (ai limiti del limitrofo) a questo conoscere. Lui, Faust, è costantemente attraccato all'azione, e non solo lui. Nel film vi è un reiterato annusare, toccare, scavare, oltrepassare, incastrarsi. Ma allo stesso tempo questo agire col corpo in azione, questo voler conoscere con mano (sbudellando) tradisce la ricerca dell'azione originaria. In altre parole: assistiamo alla ricerca di quell'azione che fa scoccare la miccia. La ricerca del punto iniziale. Il punto iniziale che è un punto di confine inesorabilmente non rintracciabile. Forse è oltre il mare di ghiaccio (alla Friedrich), o forse no. Forse, con più acume e lungimiranza, il punto iniziale è il punto centrale, ossia la fica o altresì vagina o l'origine del mondo di Courbet. Da lì escono uova (inquietantemente mangiate dalla madre medesima) e lì pare ad un certo punto puntare Faust. In fondo anche l'accattivante locandina del film punta lì. La pace di Faust innanzi al rosso pelo è, credo, condivisibile da molti. È un bel punto ove appoggiare il capo.
Ma il diavolo incombe! E vuole l'anima. Accecato dall'idilliaco traguardo insito nella visione della figa da vicino, Faust -come noto- non si nega lo streben. Per amor di conoscenza. Peccato che lo slancio di Faust sia un moto senza fine. Al diavolo la figa e al diavolo il diavolo. E il succo del discorso potrebbe essere: l'uomo è un homunculus, specie quando va oltre ciò che gli compete. In virtù di questo forse possono aiutare alcune esternazioni (per me discutibili) di Sokurov; critico nei confronti di un certo cinema che mostra troppo (sangue), un cinema responsabile del mondo attuale nel suo essere irresponsabile. Un cinema manipolatore. A detta di Sokurov tocca alla "cultura cristiana porre un argine e fermare questa continua manipolazione della coscienza operata in modo così subdolo dal cinema". E per quanto concerne l'anima cercata e venduta di Faust, è dalla distruzione di essa che "scaturisce ogni forma di violenza e di aggressività. Di questa distruzione l'immagine è uno dei veicoli di infezione maggiori. Da qui si comprende bene la responsabilità del cinema."* Dichiarazioni e anime a parte (a tal proposito rimando al film Cold Souls una più leggiadra disquisizione) è innegabile il corposo apparato teoretico -nel senso proprio del termine: veduta- del Faust di Sokurov. Ma le tematiche, alla fin fine affrontate sommariamente e lo sguardo registico non possono -per quanto mi riguarda- nobilitare il film in un eccesso di venerazione. Temi alti (sintetizzati) e manipolazioni nelle inquadrature non possono fare alto un film. Anzi. Pur non sfiorando l'ampolloso, grazie anche al ritmo lento e trascinato, Faust rischia di essere nascosto dal pene di Sokurov. L'autore, forte dei consensi e delle venerazioni, si fa prendere la mano e più che farsi Cinema si auto-fa, si auto-riprende il cazzo (che lo specchio iniziale sia una confessione di eccesso d'ego?). La masturbazione, per quanto buona è pur sempre un affare privato. Certo, magari è doveroso vedere Sokurov spararsi una sega ma non è detto che il plauso debba scattare in automatico. Mmm, tengo a precisare che questo mio discettar di seghe non vuol essere né dispregiativo né irrisorio. La nobile arte della masturbazione. Una nobile arte che qui, resa in pubblico, copre il film e lo corrompe.
Non ho visto alcuna maestosità in questo Faust. Non vi è nulla per me di sorprendente. Faust cammina con l'usuraio (un davvero davvero bravo Anton Adasinsky), vanno su e giù, entrano in case, entrano in chiesa, vanno al pub. Ogni tanto l'immagine si inclina (leziosità della quale per me si poteva anche fare a meno), si deforma assieme alla deformità di una società del commercio e della tracotanza. Passo dopo passo si arriva poi ad uno squirting del mondo naturale. Sì, deve essere figo vedere un geyser ma da qui a farlo monumento al sensazionale ce ne vuole. Insomma, tutto questo è davvero maestoso? È davvero cinema che si fa arte e arte che si fa cinema? O è semplicemente Sokurov che si appaga di sé stesso, che ci viene in faccia e che si prende pure il nostro plauso? Grazie maestro! E via di fazzolettini, per ripulir il garrulo nettare. Che la quadrilogia del potere non scivoli, proprio all'ultimo, con l'eccesso di potere del regista stesso? Scivola e si frantuma a terra come l'Homunculus di Wagner. Ad ogni modo non voglio astrarmi troppo dalla astrazione del film perché, come ribadito, ho trovato Faust un film autorialmente noioso. Ma non noioso in quanto non spassoso, noioso in quanto debole nel suo palese voler esser massiccio. Come se anche della finta corposità della pellicola si faccia carico il povero Faust. Come se debba forzatamente subire l'ego del suo demiurgo. Faust si libera del diavolo ma non di Sokurov e allora magari l'andare oltre è la soluzione migliore. O magari no, giacché come scrive William Blake all'energia umana si frappone Dio, un Dio che in eterno tormenterà il piccolo uomo che anela alle proprie energie. Neanche dopo i titoli di coda quindi arriverà l'emancipazione.


*http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/interviste/2007/282q04a1.html

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