FAI BEI SOGNI di Massimo Gramellini (2012) L’incubo di un caso letterario

Da bambino non ero propriamente un genio (e con l’età adulta non ho potuto che peggiorare), tuttavia credevo di avere una idea abbastanza chiara di ciò che mi accadeva intorno. Non c’era bisogno che qualcuno venisse a spiegarmi le cose degli adulti perché in fondo in fondo io le comprendevo benissimo da me. Tra i quattro e i cinque anni avevo già avuto modo di prendermi una sbronza micidiale, avevo rischiato di ammazzarmi e avevo anche scoperto le nudità femminili. Non tiravo su di coca ma mi andava benissimo così. Il piccolo mondo che mi ruotava intorno lo capivo, più difficile era decifrare il resto. Intorno ai cinque o sei anni la cosa che più non riuscivo ad afferrare era la presenzialità dell’esistenza. Non riuscivo a capire come potevamo essere presenti a noi stessi così ininterrottamente. La cosa mi disturbava alquanto. Non ne parlavo però con gli adulti, in generale non mi attraeva la prospettiva di far loro sapere cose di me. Volontariamente quindi mi fingevo più stupido di quello che ero. Evitavo così di accollarmi l’adulto. Come detto, mi pareva di intuire i crismi della vita: la paura, il sesso, la minaccia, la morte. Già, la morte. Una faccenda scomoda. Della mia prima esperienza con la morte rammento l’odore dei fiori e il legno della bara. Una combinazione quasi grottesca, per il me bambino di allora. C’era la stanza in mezzo alla bara e tutti i vivi seduti intorno. Di per sé il morto non mi faceva nessun effetto. Potevo avvicinarmi tranquillamente e toccarlo. Ciò che invece mi spaventava erano le persone attorno, il sentirle piangere. C’era qualcosa di eccessivamente adulto in quelle lacrime, un qualcosa che io non conoscevo e che al contempo mi incuriosiva e mi inquietava. Per tentare di alleggerire quello strazio mi sorprendevo ad interloquire con le persone in lutto per cercare di esprimere il mio inutile cordoglio infantile. Ecco quindi che mi ritrovavo ad usare le parole: ora è in un posto migliore, non dovremmo essere tristi. Forse erano parole che avevo rubato da qualche film o da qualche cartone animato ma erano comunque parole che sentivo mie giacché vedevo che tutti in quella stanza soffrivano per un corpo sostanzialmente morto. Doveva ancora svilupparsi in me una chiara coscienza dell’assenza. Anni dopo avrei avuto altri incontri con persone morte, isterilito dalla bontà infantile eccomi quindi farmi prendere da un attacco di risata isterica durante la veglia per una suora defunta o eccomi ad osservare un corpo spegnersi e morire davanti a me, in un cortocircuito biologico che divorava secondo dopo secondo la struttura della vita.
Eccomi quindi alla lettura di un altro libro di Massimo Gramellini. Uno dei suoi “romanzi” più noti ed apprezzati. Oltre un milione di copie, il libro più venduto del 2012, tradotto in 14 paesi, tre pianeti e due galassie. Perché voglio farmi così del male? Perché sono incuriosito da questa neo corrente pseudo–letteraria. Sono incuriosito da questa nuova ondata di non-scrittori di successo. Sono malamente affascinato dalla scrittura mediocre che conquista. L’invasione dei non-scrittori. Fa davvero strano il constatare che per un romanzo (romanzo nel senso totale del termine) come Stoner di John Williams possano trascorrere anni di buio, arrivando anche alla scomparsa del suo autore; mentre il diniego della scrittura, insito nei nuovi romanzi di successo, gode una primavera perenne ed estenuante. Una esaltazione che è una rescissione micidiale dell’oggetto libro. Le librerie hanno davvero bisogno di Fabio Volo o è il suo trapianto di capelli ad avere più bisogno delle librerie? Per correttezza e pietà, i libri di Fabio Volo, di Chiara Gamberale, di Massimo Gramellini non andrebbero – tra le altre cose - neanche venduti in libreria ma al limite al supermercato. Ma è ovvio che io sto sbagliando tutto e che i numeri vertiginosi di copie vendute dei loro libri mi dicono che la mia è tutta invidia, frustrazione e conclamata disperazione e quindi sono il solito sfigato cinico che inutilmente borbotta come un pensionato alle poste. Ecco quindi che per capire quanto io sia stolto mi impongo la lettura di un altro “romanzo” di Minimo Gramellone dopo aver letto precedentemente il fantasy horror intitolato L’ultima riga delle favole. Eccoci quindi dalle favole ai sogni. Fai bei sogni. Tra una cosa e l’altra ho impiegato tre ore a leggerlo, volendo si può impiegare anche meno. Non che debba essere una gara di velocità ma lo dico per evidenziare la versatilità del libro (Gramellini l’ha scritto in tre settimane). Ringraziando or dunque la squadra della Longanesi per le perle che finanzia ci si addentra in un romanzo che alla fin fine racconta un percorso autobiografico, con tanto di ritagli di giornale e foto private. Avvertendo chi sfortunatamente è capitato in questo blog del fatto che vi saranno spoiler (ossia rivelazioni spinose), penso di non poter esser smentito se dico che questa è una storia di colpe, di perdono e di lutti.
La prosa non si evolve molto rispetto al libro precedente, leggendo non cambia in me l’opinione che la scrittura di Gramellini è al quanto elementare, a tal punto che paragono questo tipo di scrittura oltre che ad un buon tema delle medie ad un prodotto televisivo. Una classica fiction di raiuno, un livello poco più che decente con qua e là qualche eccessiva caduta. Se leggi Fai bei sogni e pensi che questo sia scrivere allora una fiction di raiuno potrebbe apparirti come grande cinema d’autore. Non la pensano come me i fan. Non a caso le ultime pagine del libro ospitano la fantastica sezione “Alcuni giudizi dei lettori”, ove io posso giustamente venire smentito da Alessandro che scrive “Una grande scrittura, una grande mente, una grande sensibilità intelligente. Aspettiamo il prossimo!!!”. Io non aspetto il prossimo caro Alessandro, a dispetto di te preferirei darmi una martellata sui coglioni. Che dire poi di Elisa che sospirando commenta: “Quelle storie che sulla pelle bruciano ma sulla carta hanno il respiro della speranza”? E come poter ribattere a Emonix che afferma: “Superbo e commovente. È un libro introspettivo, come pochi se ne sono letti”. Emonix, mi sa che non hai letto molti libri nella tua vita. E come non lasciarsi ammagliare da Laura P. che scrive: “Grazie Dopo aver letto il libro spero di diventare una mamma migliore.” Grandissima Laura P., io spero invece che tu possa far conoscere ai tuoi figli i veri scrittori e non questi esenti cortigiani della grammatica. Cercando però di non lasciarmi prendere dall'eversione e dimenticando la misofobia tenterò addirittura un’exeresi dei dotti lacrimali e mi lancerò in un breve ed inutile commento. Come detto Fai bei sogni parla, tra le altre cose, di lutti. Il lutto motore del libro è la morte della madre di Massimo Gramellini. L’argomento è or dunque delicato ma non bisogna confondere il mio pensare malissimo della prosa di Gramellini e del suo successo editoriale con tutto quello che riguarda la vita privata di Minimo Gramellone. Ma d’altro canto il libro l’ha scritto lui, lui ha deciso di tirare nuovamente fuori questa dolorosa vicenda. Lui ha deciso di affrontare pubblicamente la sua elaborazione del lutto, perché condividere è bello e se non lo fai con chi ti ama, con i tuoi lettori,  con chi lo devi fare? Beato lui che può farlo quindi.
La scrittura terapeutica di Gramellini ha venduto, ripetiamolo, ben oltre un milione di copie. È davvero deprimente il pensare che più di un milione di persone abbiano decretato il successo di questa forma di scrittura. Altro che bei sogni, sembra una sorta di incubo editoriale. Cosa ha catturato così tanta attenzione? La storia di un bambino di nove anni e di una madre triste. Giuseppina Pastore, moglie di Raoul Gramellini e madre di Massimo si è suicidata lanciandosi dalla finestra dello studio del marito. Le persone vicine al piccolo Massimo hanno pensato che questa fosse una verità troppo forte per un bambino ed hanno deciso di tacere e il segreto si è protratto per quarant’anni. Perché si è creduto che Massimo non fosse ancora pronto per la verità? Be’, perché era un bambino. Cosa questa sulla quale avrei francamente da ridire, dico sul nascondere le cose ai bambini ma tant’è. In fondo nonostante i suoi nove anni, Massimo pareva fosse anche più piccolo. Si è rifiutato di vedere il corpo della madre, come scrive lui stesso “Solo in età adulta avrei imparato a non scappare dalle bare ancora aperte”. Il piccolo Massimo, che amava infilarsi sotto le coperte per navigare nel sottomarino della fantasia, fantasie che gli trasmettevano sicurezza, “sicurezza che in seguito avrei ritrovato soltanto nella scrittura”. Dolenti momenti, anche quelli antecedenti alla morte della madre. Quelli nei quali la si vedeva rientrare triste a casa e allora ecco che “papà la accarezzava con le parole e io le parlavo con le carezze”. Con poi il piccolo insopportabile Massimo che si sforzava di “attirare l’attenzione degli uomini, attingendo al mio repertorio: lettura di menu immaginari (« Gradite una lasagna di rospo? » ) e radiocronache calcistiche improvvisate”. Un frizzante e pingue bambino coi riccioli biondi che voleva essere al centro dell’attenzione; la tipologia di bambini che io detestavo anche da bambino. Il piccolo Massimo lamentava un deficit di attenzione (o una deficienza attenzionale), non solo da parte di quelli adulti che non vedevano di buon occhio la lasagna al rospo ma anche da parte di mamma. Esemplificativo il giorno in cui si decide di andare al cinema e Massimo entusiasta come non mai invita la mamma a prepararsi. Solo che lei vuole portare anche la donna delle pulizie e allora Massimo si inalbera e il Massimo “scrittore” scrive “Ma l’avevo invitata a uscire con me! Non le bastava? Non le bastavo?”. Che due coglioni il piccolo Massimo. Piccolo Massimo che concentra tutto il suo disappunto urlando alla madre un “Vaffantubo”. Ma vaffantubo tu, bimbetto egoista e rompicazzo.
Si va poi comunque tutti al cinema (donna delle pulizie inclusa) e la sera Giuseppina chiama a letto Massimo per chiedergli scusa. Scusa accettate, poi lei tossisce e agli occhi del piccolo Massimo torna ad essere una figura triste e noiosa “Con quella voce lamentosa, che da allora non sopporto nemmeno nei mendicanti”. Fai bei sogni, piccolino, le dice Giuseppina e Massimo ribatte “Io non sono piccolino. Fra un po’ sarò più alto di te”. Sì, un bell’omone tutto rosa come un pimpante maialetto. Un maialetto con la bella cacchina da esporre al mondo: “La facevi in un vasino a forma di oca. Tua mamma lo portava in giro per casa, magnificando il contenuto neanche si fosse trattato di una scultura. Era pazza di te”. Poi arriva il giorno oscuro, la morte di Giuseppina. Come detto, al piccolo Massimo viene negata la verità. La morte per suicidio viene nascosta inventando una morte per infarto. Massimo si ritrova orfano di madre. Una condizione difficile da metabolizzare, oltretutto (e qui concordo con lui) “Non è semplice rimanere orfani nel paese dei mammoni”. Anche se poi lui non nasconde una certa presunzione, quella che lo porta ad evitare altri orfani per non perdere - nella comune condizione - la sua unicità. Rimasto orfano Massimo resta a secco di baci e abbracci (io li detestavo profondamente). Per fortuna un giorno arriva tata Mita, “la tata incaricata di spolverarmi la vita”. Tipica frase gramelliniana questa. Quelle frasi che mi fanno interrompere la lettura per alzare gli occhi al cielo e sospirare. Oltre un milione di copie vendute. Bambino costantemente in cerca di attenzioni, Massimo si prodiga per catturare l’interesse della tata Mita: “tentai di varcare la soglia dei suoi sentimenti”. Or dunque ecco arrivare il momento strappalacrime, il bimbo orfano, paffutello, tutto triste che domanda alla tata “Sarai tu la mia mamma, adesso?”. Al che tata comediavolosichiama risponde: “Mi dispiace, bambino… Non ce la faccio a volerti bene. Nessuno ne ha mai voluto a me e… non so come si fa”. La tata a questo punto scappa in bagno piangendo. Dio, quante cazzate. Non so come si fa ad amare. Vabbè, fiction raiuno del martedì sera. Tira male per il piccolo Massimo. Non trova nuove mamme e allora deve ripiegare su papà, seppur con molti dubbi giacché “Per colmare in parte l’abisso di una madre che muore bisogna essere dei maschi femmina. Severi all’occorrenza, ma sensibili. Invece papà era maschio e basta. (…) Un maschio femmina avrebbe cercato una tata in grado di riscaldarmi soprattutto il cuore. Ma agli occhi di mio padre certi discorsi erano esercizi di stili per sognatori”. Il dolcissimo mondo sognante di Massimo è quindi a rischio e gli tocca pure sorbirsi un papà che “russava come un orso strafatto di miele”. O come un alcolizzato steso da litri di vino.
Come di sua consuetudine Gramellini dà un grazioso nomignolo ad ogni cosa, facciamo quindi la conoscenza di Belfagor, il mostro che si nutriva delle sue paure e Teschio la maestra di scuola. Tra una vicissitudine e l’altra, per respirare un po’ di aria fresca, Massimo e suo padre partono per l’India. Chi è che non lo fa? Chi è che non se ne va in India nei momenti di sconforto? Un classico. Come però scrive lo stesso Massimo nella sezione posta di Vanity Fair (19.08.2015): “la sofferenza è un bagaglio a mano che ti porti dappertutto”. Parole importanti. Grazie Massimo per queste potentissime immagini. Ad ogni modo, il bagaglio a mano di papà doveva essere più leggero visto che ad un certo punto Massimo lo sorprende “mentre sbaciucchia una signora del Gruppo Vacanze”, un bionda che viene nominata “la donna pitone” giacché come detto Gramellini inventa simpatici nomignoli per tutto, da vero scrittore. Si ritorna or dunque a casa, alla vita di tutti i giorni. Quella vita ove Massimo ha imparato a non piangere, “Belfagor non sopportava le lacrime”. Vi era però un altro inconveniente, tutt’ora presente in Gramellini: “Sudavo tantissimo. (…) Sudare era il mio modo di piangere”. Tra una sudata e l’altra, il piccolo Massimo vive nel marame delle fobie, come il timore dei ladri. Ecco quindi un giovane Massimo andare a controllare i luoghi dove sicuramente un ladro potrebbe nascondersi: “nei cassetti della biancheria o dentro la lavatrice”. Povero Massimo. Per fortuna sbuca padre Nico, professore di greco e latino. Grazie a lui Gramellini si concede un’autocitazione dal suo L’ultima riga delle favole, il nono capitolo. “I se sono il marchio dei falliti! Nella vita si diventa grandi nonostante”. Una frase di padre Nico che evidentemente gli piace molto. Gli struggimenti di Massimo non si alleviano e ora sopraggiunge anche la sfera sessuale: “Nella mia fantasia vagheggiavo una sorella ideale in minigonna e calze nere che avrebbe alleviato la mia solitudine. Ma forse non era una sorella. Era una fidanzata. O una mamma. O tutte e tre.” Non è cosa così scandalosa, in una certa fascia di età, una pulsione incestuosa solo che Massimo inizia ad essere un po’ grandicello. Ma andiamo avanti. Il libro è arrivato a metà ed io non vi ho trovato ancora nulla di così pazzesco da giustificare un successo così esplosivo. Vi è un resoconto abbastanza stringato delle sue esperienze giovanili, ci sono le solite immagini e le solite frasette tipo “I sogni sono radicati nell'anima  e la mia era fuori servizio” o “Corriamo in strada e ci strizziamo di abbracci” o le verità incredibili tipo “Le donne non si conquistano con le corde vocali, ma con gli orecchi”. Vi sono le tipiche suddivisioni per categorie come la categoria delle “carogne inconsapevoli”, la categoria delle “persone emotivamente pericolose”, la categoria degli abbandonati. E vi sono i soliti dialoghi raffazzonati, artefatti, così finti nel loro botta e risposta. Dialoghi, non so come dire, spettacolarizzati, ad effetto. Con grande pazienza riporto qui la parte di dialogo che un poco rappresenta ciò che voglio dire. Se pensi che sia un dialogo ben scritto allora godiamoci il milione di copie vendute, se invece pensi che sia un po’ una cagatina mi fai sentire meno solo. Massimo si trova in una casa di buddisti romani, parla con il responsabile del gruppo, un tizio con un aspetto alla Che Guevara. Il dialogo è quindi questo, inizia con Che Guevara:
“Hai fatto una scoperta importante. L’amore non basta a rendere felici gli esseri umani. La felicità non è figlia del mondo, ma del nostro modo di rapportarci a esso. Non dipende dalla ricchezza, dalla salute e neanche dall’affetto di un’altra persona. Dipende solo da noi. Quindi tutti possiamo provarla. Forza, ripetiamo: io posso essere felice”
“Io posso essere felice” intonò il coro.
“Sei d’accordo?” mi incalzò il Che.
“In astratto sì. Ma la vita non è un mantra per buontemponi. Nello stomaco di tutti galleggia un’ingiustizia che abbiamo subìto e consideriamo inaccettabile. La prova dell’inesistenza di un disegno superiore che, se ci fosse, non avrebbe mai potuto permetterla. Per sopravvivere al dolore siamo stati costretti a costruirci una corazza di cinismo che ci protegge dalla verità”
“Quanti anni hai?”
“Quasi trenta.”
“È l’età dei primi bilanci…”

Non so, a me questo scambio di verità mi fa cagare. Scritto male, pensato peggio. E viceversa. Mi astengo dal riportarlo nella sua completezza. Vorrei provare a leggerlo ad alta voce, per sentire come suonerebbe nel reale, specialmente la parte “Ma la vita non è un mantra per buontemponi. Nello stomaco di tutti galleggia un’ingiustizia che…”. Ma mi astengo. Anche in Cosmopolis di DeLillo vi è una bella sfilza di dialoghi improbabili ma è un altro tipo di improbabilità, è un qualcosa di immensamente più sottile e astratto. Qui l’intento è diverso, il talento è diverso. L’idea di scrittura è diversa. Mi scuso comunque per aver accostato lo scrittore Gramellini allo scrittore DeLillo. Dove eravamo? Ah! Sì. Dopo averci informato sui suoi denti del giudizio si arriva al momento in cui Gramellini trova lavoro. Siamo a Torino. Gramellini conosce Alberto, “un naufrago dell’estate che frequentava la redazione del Corriere dello Sport”. Vanno insieme a vedere la partita del Toro. Massimo scrive su un foglio le sue impressioni a riguardo e lo regala ad Alberto. Alberto poi parte per il militare e Massimo viene convocato da Orso (sic!), il capo di Alberto. Incredibilmente Orso ha letto le considerazioni che Gramellini aveva scritto sul foglio e sbotta: “Non ho capito se sei un pazzo o se hai soltanto avuto un’infanzia difficile. Un’ipotesi non esclude l’altra, ovviamente. Ma io propendo per la prima: un pazzo. Quindi con me ti troverai bene. (…) nell'ipotesi di pura fantasia che un brutto giorno tu riuscissi a coronare il tuo incubo e a diventare giornalista, ti faccio fin d’ora le mie condoglianze perché si tratta di un mestiere di merda. Accetti?”. Sì, la solita storia dell’ hey amico, è un mestiere di merda fratello. Gramellini accetta e questo mi fa pensare a quando anche io vivevo a Torino. A saperlo avrei infilato un mio scritto nella tasca del primo Alberto che mi capitava a tiro. Ora sono in Sardegna e sono ormai troppo vecchio per infilare le mani nelle tasche di Alberto. E proprio in Sardegna ecco riapparire Massimone Gramellone. Viene contattato al telefono dal caporedattore del Giorno che si congratula con lui per gli articoli sulla Juve e lo informa che lì a Milano vogliono assumerlo. Dopo appena un anno di gavetta ecco che il nostro Massimo firma il suo bel contratto. C’è anche un piccolo momento alla Almost Famous, con Gramellini giornalista che accompagna la squadra di calcio in trasferta. Dio, che mestiere di merda quello del giornalista. Purtroppo non tutto fila liscio, Massimo viene lasciato dalla ragazza, ragazza che preferisce convolare a nozze con Hulk (nomignolo). E qui Massimo avverte il medesimo dolore provato dopo che Baloo (il sacerdote degli scout) gli aveva detto della morte della madre: “Un cucchiaio di ghiaccio che mi penetra nella pancia per svuotarmela tutta”.
Il tempo passa e i mali si dimenticano. È il momento di sbirciare in una vecchia scatola, “la cassaforte dei ricordi di una vita”. Qui Massimo ci mostra un quaderno d’infanzia con all'interno “l’incipit che segnò l’esordio della mia carriera letteraria: « È autumo e cabono le folie ».” Quanta immensa dolcezza e quale brivido nella schiena mi percuote leggendo “l’esordio della mia carriera letteraria”. Carriera letteraria. Letteraria. Arriva poi il momento Gramellini inviato di guerra a Sarajevo. Ora, queste sono pagine scritte nel solito stile alla Minimo Gramellone ma almeno si evince una cosa: Gramellini è un giornalista e questa cosa sì che gli riesce bene. C’è il giornalista, il commesso, il critico letterario, il professore, lo scrittore, l’astronauta. Ognuno abbraccia brillantemente il suo mestiere o la sua vocazione. Le cose iniziano a scricchiolare quando il giornalista diventa scrittore o quando il critico letterario si reputa scrittore (qui un esempio) o quando l’elettricista si crede un geologo. Ad ognuno il suo. Ma anche la sua giacché il tempo passa e finalmente Massimo incontra la donna giusta, Elisa. Massimo è lì, affacciato su una terrazza romana quando una voce suadente dichiara: “Non siamo scimmie evolute, ma divinità decadute!”. Sì, è decisamente la donna giusta per Massimo. Ed è subito amore. Per avere ulteriore conferma il buon Massimo le domanda: “Per te è un problema se sono orfano?” Quanta dolcezza. Ecco quindi Elisa rispondere: “Conosco tanti orfani di genitori vivi: figli non amati, incompresi”. Bellissimo. La vita di Massimo è quindi ad una svolta positiva. Sopraggiunge anche una adorabile femmina canina di nome Billie. Essendo il cane di Massimo Gramellini cosa viene subito conclamato del quadrupede? È facile evincerlo e Gramellini lo mette per iscritto: “Billie intercetta l’energia dell’amore”. Penso sia a questo punto che si è arrivati al milione di copie vendute. Mi par evidente. Tutto così roseo come il sederone rosa di Minimo Gramellone? No. Ci imbattiamo in qualche scaramuccia tra Elisa e Massimo. Elisa lamenta il fare la vittima di Massimo: “Pensi male. E mangi peggio, Impugni la forchetta come se fosse uno scalpello e hai il sugo che ti cola dagli angoli della bocca. Ma che schifo!”. Devo dire che ho apprezzato assai questo passaggio. L’ho apprezzato perché risponde alla mia idea di Massimo Gramellini. Ha in effetti l’aria di uno che si sbrodola mangiando e di uno che tiene le posate come le potrebbe tenere un bambino. Le mie immagini su Gramellini si spingono anche oltre ma le risparmio… Lui tutto sudato, gonfio, i ciuffi di peluria che sbucano dalle spalle, una forma di violenza repressa e l’estasi di un orgasmo in arrivo. Huahhggghh!! Grrohhhaahh! Grande Massimo. Lasciandoci alle spalle questi momenti goduriosi e a novanta, è purtroppo giunto il momento di affrontare ciò che per tutto il libro è stato rimandato. Assistiamo alla morte del padre e al suo funerale. Qui, sbuca Madrina. Madrina ha letto L’ultima riga delle favole e confessa a Massimo non che quel libro fa schifo ma che vi sono cose delle quali bisogna discutere. Scopriamo quindi che Giuseppina, la madre di Massimo, aveva il terrore del dolore fisico. Soprattutto veniamo a sapere che c’è una verità celata. Come dice Madrina “Dopo quarant’anni sarebbe ora che qualcuno ti dicesse la verità”. Be’, sembra anche a me una cosa finemente sensata. Madrina tira fuori un vecchio articolo di giornale. Il titolo: Madre si getta dal quinto piano.
Vi è un qualcosa di grottesco in tutto ciò. Come è possibile che per quarant'anni quest’uomo sia rimasto all’oscuro delle vere cause della morte della madre? Assurdo. Perché si era uccisa? Le era stato diagnosticato un tumore maligno. Un tumore che era stato poi asportato con successo. Restavano solo gli accertamenti e le cure di routine. Cosa questa che aveva insospettito Giuseppina. Il cancro era stato sconfitto ma lei a questo non voleva crederci e anzi pensava che vi fosse un complotto messo su dai medici e dai parenti più stretti. Giuseppina si era convinta che presto sarebbe arrivato il dolore dovuto al cancro, un cancro che per lei non era stato respinto. La paura del dolore l’ha portato quindi a scegliere di non soffrire più. “Mia madre non aveva creduto alla verità e si era uccisa”. Come poi scrive Gramellini, in fondo lui sapeva. “Sapevo da sempre com'era morta, ma avevo deciso da subito di non volerlo sapere”. Diciamo quindi che ha avuto una sorta di intuizione a posteriori tra le pieghe dell’a priori. E qui Massimo dice l’unica cosa sensata: “Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi.” Un tema squisitamente filosofico questo, la presenzialità a sé stessi. Siamo dalle parti dell’autocoscienza in Fichte e non solo. Navighiamo anche il mare tempestoso di Schopenhauer, con il dolore come chiave del reale. Ho trovato quindi una cosa apprezzabile di questo libro, le ultime quattro righe di pagina 196.
Dopo questo Massimo Gramellini va a concludere con una esaltazione del padre. “Mi aveva voluto bene. Più della mamma. Perché papà era rimasto. E c’è sempre più amore in chi rimane che in chi se ne va”. Papà Gramellini, l’uomo che l’aveva difeso dal dolore inaccettabile. L’uomo che aveva ideato una menzogna anche per non permettere al figlio di non disprezzare sua madre, colei che aveva deciso di lasciarli soli. “Lei era stata debole. E non può esserci gloria per chi scappa dalle responsabilità”. Parole queste che un po’ mi hanno fatto pensare. Non per la solita scadente prosa di Gramellini ma perché in esse, in quelle parole, vi è anche una certa ottusità. In esse vi è ancora il bambino rompi coglioni che si infila tra gli adulti per domandare chi vuole le lasagne al rospo. Ma infilatele nel culo quelle lasagne, moccioso di merda. “E non può esserci gloria per chi scappa dalle responsabilità”. Ma cosa è poi questa gloria? Cosa sono queste voci degli dei alle quali per Massimo restiamo insensibili? Questi assoluti sono altamente debilitanti. “Lei era stata debole. E non può esserci gloria per chi scappa dalle responsabilità”. Ecco quindi che io salgo in piedi sul letto, prendo gloriosamente il libro in mano e issandolo oltre la mia testa domando con gloria ulteriore: l’hai deciso di punto in bianco Massimo? Non dicevi tu stesso che in qualche modo tu sapevi e che hai fatto finta di non sapere? Certo è molto più sicuro dividere il mondo e le persone in categorie e il dare nomignoli propri a persone altrui. Anche alla paura Minimo Gramellone ha deciso di dare un nome, Belfagor. Come se non bastassero Orso, Teschio, Baloo e Ciccioformaggio. Se hai una serie di categorie e di nomignoli da appioppare è più facile trovare il colpevole, la persona sulla quale puntare il dito. Colui o colei che sfugge all’agognata gloria e alla responsabilità. “Nell’ospedale di Sarajevo avevo visto donne ferite lottare con fierezza contro la morte e tendere le mani verso un figlio che non c’era più, animate dalla speranza assurda di poterlo riabbracciare ancora. Io invece ero nella stanza accanto. Vivo. Ma la mamma se n’era infischiata di me. Aveva pensato soltanto a se stessa”. Segue altro momento di rabbia di Massimo ove giustamente riappare Elisa, la donna della sua vita. Lei lo invita a perdonare: “Ciò che sto cercando di dirti è che la paura uccide sempre l’amore. Persino l’amore di una madre”. Qui Elisa si accorge che Massimo tiene i piedi ben saldi per terra, quando invece lui solitamente li solleva leggermente per guardare più in là.

“I tuoi talloni!”
“Allora?”
“Sono incollati al tappeto”
Li ho staccati immediatamente.
“Di solito dove li tengo, scusa?”
“Lo sai benissimo: per aria.”
“Vorresti dire che non sono più un elfo?”
“Magari stai diventando un elfo evoluto.”

Trattengo a fatica un conato di vomito e proseguo nella lettura e con Elisa che dice:

“Solo il perdono ti rimette in contatto con l’energia dell’amore. L’ho sperimentato tante volte. E l’ho letto in tanti libri. Anche nel tuo.”
“Ma come si fa a perdonare una disertrice?” 
“Evidentemente tu non hai mai sofferto abbastanza da desiderare di morire. Ci vuole una forza d’animo straordinaria per alzarsi dal letto ogni mattina con l’idea che la vita sia una prova e vada affrontata sempre, anche quando si è sicuri di avere subito un’ingiustizia terribile e si ha paura di non farcela.”
“Adesso sta a vedere che la vita è una scelta eroica!”  
“Certo che lo è! Una scelta eroica che si rinnova a ogni istante…”

Il dialogo prosegue ma preferisco tagliar corto con Elisa che dice “mandale tutto il tuo amore e lasciala finalmente andare…” Ed ecco allora che Belfagor riappare, per scomparire. “L’ho sentito rattrappirsi come una spugna consunta e poi disintegrarsi in una pioggia di frammenti subito inghiottiti dal buio”. Che meraviglia, come quando nel film Poltergeist i fantasmi vengono finalmente respinti. Nel libro poi arriva anche il momento Ghost, con l’immagine di Giuseppina che dopo aver salutato Massimo si dirige verso la luce. È una apoteosi di grazia e magnificenza. Elisa e Massimo si abbracciano e… Oh, che amore. Guardate, ecco sopraggiungere il cane Billie che si unisce a loro. Fine. Cosa dire? Non saprei. In qualche modo mi viene da pensare a Giuseppina. Credo sia l’unica figura verso la quale nutro della comprensione. Ma non sono qui per giudicare questioni personali quanto per interrogarmi sul successo di un libro così di merda. E a renderlo a me non apprezzabile non è ovviamente la vicenda (personale e condivisibile) ma la scrittura, la struttura. Fai bei sogni è uno dei tanti libri di non-scrittori che vengono assurdamente – cito Massimo – glorificati. Ad un certo punto del “romanzo” Gramellini scrive: “un’epoca come la nostra che ha trasformato le emozioni in un genere televisivo”.  Non si può dire la medesima cosa di Gramellini stesso? Lui in aggiunta ha anche trasformato le emozioni in un genere letterario. E lo ha fatto un po’… irresponsabilmente. Un genere letterario dove l’idea di letteratura è licenziosa. Le emozioni di Massimo saltellano in una prosa trasandata, infantile. Una prosa che isterilisce il significato di libro, di romanzo. Un’incapacità ben vestita che gode dell’egida di un consenso inappropriato. Come ho detto, non da molto ho letto Stoner di John Williams. In Stoner non succede moltissimo, di quel poco che succede ne viene anche fatto un compendio nelle prime righe del romanzo. Come a dire: questo è quello che troverai, se non ti interessa lasciami pure perdere. E così infatti è accaduto. Stoner è stato presto dimenticato. Trovo che sia abbastanza osceno che John Williams sia morto senza partecipare della riscoperta del suo libro. Così come trovo osceno che gente che sa appena infilare una parola dietro l’altra arrivi a conquistare orde di lettori. Un arricchimento che non ha nulla di culturale, al limite monetario.

Prendiamo la classifica dei libri più venduti della settimana. Ora che scrivo è il 17 aprile ’16. Chi troneggia al primo posto in Italia? Vietato smettere di sognare di Benji & Fede, edito da Rizzoli. Allucinante. E chi vi è al secondo posto? Before di Anna Todd. Non c’è molto da stupirsi che in un paese di non lettori vincano i non scrittori. È sconfortante ma è così. Questi lettori sono l’equivalente cinematografico di quelle persone che non vanno mai al cinema eccetto che in occasione delle orride commedie sboccate all’italiana. Anzi, a dir la verità anche questo trend è andato a decadere. Come si è visto di recente, il cinema di qualità italiano viene premiato dal pubblico. Si pensi a Lo chiamavano Jeeg Robot ma non solo. In ambito letterario invece pare essere a dir poco in alto mare. Qui c’è Alessandro che legge la prosa di Gramellini e dice: “Una grande scrittura, una grande mente, una grande sensibilità intelligente. Aspettiamo il prossimo!!!”. Aspettiamo il prossimo cosa? Il prossimo libro mediocre da festeggiare come caso editoriale dell’anno? Caro Ale, ma perché non ti infili una carota nel culo? Anzi no, scusami, ho esagerato. Infilati sì una carota nel culo ma vai anche a leggerti qualcuno che è uno scrittore e non chi finge di esserlo. Ad ogni modo la vita continua. Massimo Gramellini continuerà a scrivere e farà anche bene. Lui come tutti gli altri alimenta questa sete di non-scrittura e quindi di non-lettura. Come dargli torto. Oltre un milione di copie vendute. L’aspetto positivo di Massimo Gramellini è che alla fin fine è un tenero orsetto, anche se sudaticcio e spelacchiato. Scrive come scrive ma vabbè, non facciamone un dramma. Sembra comunque una persona con una certa umiltà. Dall'alto del suo stipendio non si sprecherebbe manco a mandarmi a cagare. C’è di peggio in giro, a livello di scrittori dello spettacolo. C’è di peggio e probabilmente ce ne sarà ancora. Nuove leve della non-scrittura stanno arrivando. Bisognerebbe decidersi ad abbassare le serrande delle librerie. I non-scrittori arriveranno a picchiare contro le saracinesche, lasceranno tracce ematiche del loro non talento ma alla fine, con il sorgere del Sole, se ne andranno. Pronti ad invadere il primo centro commerciale. Poi finalmente le librerie potranno nuovamente aprire affinché vi si venda ciò che si è sempre venduto: libri, quelli veri.  

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