ELLE di Paul Verhoeven (2016) Fottiti Adamo

Ciao, come va? Hai fatto la cacca oggi? “Si ride. E parecchio”, scrive Gabriele Niola sul sito Bad Taste a proposito di Elle. Codesto aspetto comico è segnalato anche da altre recensioni ma è quel “Si ride. E parecchio” di Gabriele Niola ad essermi rimasto più impresso. Sarà perché mi ero ritrovato a domandarmi cosa lui si fosse trincato per arrivar a considerare “melassa melensa” Demolition di Jean-Marc Vallée. Or dunque si ride davvero parecchio in questo nuovo film di Paul Verhoeven? Secondo il mio non richiesto parere no. Non dico che non si sorrida ma è quel E parecchio di Niola a suonarmi così fuori misura, se non propriamente sciocco. Di cosa parla Elle? Parla di uno stupro e di un modo spiazzante di viverlo. Non c’è molto di cui ridere se il tema portante è una violenza sessuale. Eppure il caro Paul… Paul Verhoeven, regista settantottenne che dopo dieci anni torna al lungometraggio, in più interviste ha confessato di aver avuto delle difficoltà a trovare la lei di Elle. Interrogandosi sul fatto che negli Stati Uniti le attrici da una parte lamentano, giustamente, la mancanza di ruoli femminili di spessore e dall’altra rifiutano il personaggio di Michèle, la protagonista di Elle. Un rifiuto a catena e in tempi brevi; nel senso che se generalmente ci vogliono un paio di settimane per avere dagli agenti un sì o un no, il simpatico Verhoeven si è visto ricevere invece netti no nel giro di 48 ore*. L’argomento stupro era troppo rischioso. Paul un po’ triste e in una giornata di vento e pioggia se ne va allora in aeroporto col suo fatiscente trolley e decide di partirsene in Francia. Qui, la svolta. Ossia l’incontro con Isabelle Huppert. Ci sarebbe da aprire una bella parentesi su questa donna ma lasciamo perdere; diciamo semplicemente che lei è sublime. Sensuale e respingente allo stesso tempo. L’attrice perfetta per un ruolo come questo. Il regista è stato ugualmente azzeccato? Guardando Elle viene davvero difficile pensare che dietro la macchina da presa ci sia lo stesso regista di Robocop e Starship Troopers. Non per questioni legate al contenuto, quei due film citati sono molto fighi. A tal proposito da bambino (che tenero) Robocop mi inquietava e mi gasava. Di Starship Troopers ricordo invece che lo vidi con un mio compagno di classe filoamericano e amante del mondo militare. Lui vide un fighissimo film di gente che sparava alla qualsiasi, io vi lessi invece un palese sarcasmo su gruppi di invasati fascistoni militari maschi alfa pompati all’inverosimile. Con poca fantasia ribattezzai Johnny Rico (il gagliardo protagonista di Starship Troopers) Johnny Rinco. Qui di seguito una immagine di me adolescente nell’atto di pensare che Starship Troopers è un palese sarcasmo su gruppi di invasati fascistoni militari maschi alfa pompati all’inverosimile.
Dicevo? Ah, sì. Guardando Elle viene davvero difficile pensare che dietro la macchina da presa ci sia lo stesso regista di Robocop e Starship Troopers. Non per questioni legate al contenuto (tuttavia se il film fosse rimasto in America sarebbe potuto divenire un mero film di vendetta**) ma per questioni di regia. Una volta giunto in Francia, Paul Verhoeven è come se sia diventato francese pure lui. La regia di Elle è estremamente addentrata nella vicenda. Movimenti di macchina e scelte di montaggio non invasivi, algidi e significativi. Davvero molto bello a tal proposito l’inizio del film. I primi minuti rendono ottimamente l’idea di cosa il film sarà. Abbiamo una violenza orrenda e un gatto che guarda il tutto facendo persino le fusa. In casi come questo la macchina da presa letteralmente parla, comunica. Ulteriormente notevole il come quel non visto venga poi riproposto, trasformato, ripensato con uno sguardo quasi sognante e compiaciuto della incredibile Isabelle Huppert. C’è un accenno di sorriso che dice tutto. Gesù, ma che bel bizzarro film è Elle? La bellezza di Elle è nella costante ambiguità, nel suo essere sovversivo, strano, non facilmente qualificabile. Finisci di vederlo e rimani un po’ perplesso. Poi ci pensi poco dopo e dici: “Che film… strano. Mi è piaciuto un sacco! Mò lo metto tra i miei preferiti del 2016”. Un film strano dove accadono cose che per i protagonisti sembrano normali. È normale che una sessantenne abbia ancora il ciclo ed è normale non farsi domande sui propri figli (no spoiler). Ma soprattutto è normale che accadano eventi traumatici e continuare poco dopo a far la vita di tutti i giorni. Sono stata violentata… Ah, alle cinque devo andare dal mio commercialista e non devo dimenticarmi di comprare le crocchette per il gatto. Il gatto, quel bel gattone in antinomia alla violenza. In tal guisa in Elle ci ho visto anche un che di A proposito di Davis. Anche lì c’era un gatto e anche lì il felino non era un elemento a caso. Nella mia idiozia ho associato il gatto a Michèle e Michèle al gatto. Che bizzarro questo segreto che lei e il micio condividono, a parte lo stupratore ovviamente. Il gatto guarda, non può fare niente, non può testimoniare niente. Il piccolo confronto tra Michèle e il gatto è forse il momento più intimo che ci viene concesso dalla personalità della protagonista.
Michèle è una donna che ormai (no spoiler) non si lascia smuovere da nulla. Ha una visione estremamente emancipata e non si lascia frenare dagli eventi e dai piccoli e grandi problemi. Michèle i problemi li affronta, con calma e precisione. Contro di lei ha praticamente tutti e allo stesso tempo ha tutti dalla sua parte, nel senso che gli altri da lei ne sono attratti. Piccoli umani che lei, Michèle, guarda con curiosità e sottile supponenza. È una donna che vive di contrasti e di impulsi. Diciamo che Michèle potrebbe essere la sorella meno disturbata e più agguerrita della protagonista de La pianista di Haneke. Or bene, ad un certo punto viene da domandarsi: ma è Michèle la vittima o sono gli altri che devono preoccuparsi di esserlo? Inutile dire che ho adorato e odorato l’ottica di questa donna, del personaggio protagonista di Elle. Non so, sembra una donna ingenua unicamente per sé stessa. Capisci cosa voglio dire? No? Neanche io. C’è in Michèle curiosità e stupore per gli altri. È una gatta. Dagli altri lei non ricava stimoli particolari ma solo piccoli interrogativi qua e là. È una donna che è come se avesse vissuto una insana forma di liberazione. Come se fosse esplosa tempo fa, e di questa esplosione ora è rimasto un cratere che nessuno può riaggiustare. Non si può né aggiustare né ripetere. Quella esplosione ha reso tutto il resto una piccolezza in confronto. Anche per questo forse lei ha cotale atteggiamento nei confronti dello stupro subìto. È stata violentata, ed è una cosa schifosa che gli umani fanno ma lei sa che è così. È successo, struggersi o sentirsi invasa non le servirà. Scusami ora se mi ritrovo a citare un filosofo che si chiama Emmanuel Lévinas. Costui in Altrimenti che essere scrive: “Il vero problema per noi occidentali non consiste tanto nel rifiutare la violenza, quanto nell’interrogarci a proposito di una lotta contro la violenza che (…) possa evitare l’istituzione della violenza a partire da questa lotta stessa”. Lévinas resterebbe magari incuriosito or dunque dalle modalità anti-violenza di Michèle. Da dire che lui, Lévinas, è stato più volte accusato di essere un maschilista indefesso e quindi non propriamente nelle corde di una tipa coriacea come Michèle. Una donna assai distante dall’ideale femminile amorfo e piegato di Lévinas (ti consiglio la lettura di Inclinazioni di Adriana Cavarero, in quel saggio c’è un raffinata metodica atta a stanare l’ardore misogino del filosofo francese).
Un grande e simpatico filosofo franco-algerino di nome Jacques Derrida (anche egli amante dei gatti e del loro sguardo) si è posto la questione di un qualcosa come la responsabilità. Cosa è una scelta responsabile? Gestire lo stupro nel modo in cui lo fa Michèle è da persone responsabili? In qualche modo sì (no spoiler). Per Derrida una decisione è giusta quando si ritrova ad esser sulla soglia della follia, quando non è più rimandabile. Michèle tende la corda di questa decisione per tutto il film. La tende e su di essa vi inciampano la madre, il figlio, i colleghi di lavoro, l’amica e chi più ne ha più ne metta. Elle è un film su una responsabilità tesa fino quasi allo spasmo e al decadimento. Si decide in modo responsabile quando ci si ritrova sul ciglio di questo confine, di questo impossibile. Come ben riassume (e vai di citazioni spocchiose come se non vi fosse un domani) Caterina Resta ne L’evento dell’altro: “Affinché si dia qualcosa come una responsabilità, bisogna infatti attraversare l’intransitabile, fare in qualche modo l’esperienza dell’impossibile, rispondere a un’obbligazione che è in se stessa contraddittoria, doppia, conflittuale”. E arrivare fino al limite del possibile significa anche non rispondere. “Ti trascinerà ai confini, e poi oltre”, dice Tyler a Johnny Utah in Point Break. La decisione oltre il confine, e quindi nell’impossibile, sarà poi quella di lanciarsi da un aereo. Hai presente quella scena no? Ecco, è un sunto perfetto della scelta responsabile dell’impossibile di Derrida. Ma torniamo ad Elle, dicevo? Ah, sì. Il non rispondere come decisione impossibile, laddove “persino un rifiuto, in qualche caso, sarebbe la migliore risposta; ma nel senso, certo più inquietante, che non c’è una risposta per tutto e, forse, in ultima istanza, non c’è mai risposta per niente”. La sospensione della responsabilità come unica e a volte impossibile risposta possibile. In tal senso il film di Paul Verhoeven destabilizza e il paradosso al quale ci imbattiamo produce sì il sorriso. Un sorriso che non è il “si ride molto” decantato da Gabriele Niola e da altri. Ridere molto innanzi a questo film sarebbe ancora più folle del limite possibile dell’impossibile di Derrida. Saremmo forse ormai in caduta libera, abbracciati alla follia più totale ove all’eco della nostra stessa risata sguaiata risponderemo ridendo ancora più forte. La Michèle di Elle non è invece pazza. È satura fino al razionale. La sua decisione, quella che ha toccato l’impossibile, è una decisione libera dagli altri, è una decisione completamente dedicata a sé stessa. Una libertà che gli altri non hanno ed è forse anche per questo che rimangono affascinati da Michèle.
Perdona la mia pronuncia: la honte c'est pas un sentiment assez fort pour nous empêcher de commettre quoi que ce soit, si sente dire ad un certo punto. La vergogna non è un sentimento sufficientemente forte per impedirci di fare qualsiasi cosa. Sartre, un altro francese, parla di vergogna in termini di alterità. È l’irruzione dell’Altro ad infiammare definitivamente la mia vergogna, un Altro che, bada bene, può essere un se medesimo. L’alterità è or dunque onnipresente, anche e soprattutto quando si è con se stessi. L’uomo è per se stesso sia un Io che un Tu, direbbe Feuerbach se entrasse or ora qui e leggesse le stronzate che sto scrivendo. Michèle è invece un caso particolare: è un Io, un Tu ed anche una Lei. E lei ha ormai una visione esplosa dell’altro, una visione deturpata, violata, sconfinata. Se il sentimento della vergogna viene spalancato dall’Altro, nel caso di Michèle abbiamo una alterità che decostruisce di conseguenza anche la vergogna. Michèle è or dunque ricondotta a se stessa nel fare l’esperienza della responsabilità per l’altro più prossimo e distante: lei stessa. Sì, sto delirando come al solito ma se guarderai il film alcuni miei deliri potrebbero apparire un filino sensati. Non moltissimo ma un filino sì. Michèle non ricerca una giustizia in altro; non nella polizia, non nella fede (che contesta simpaticamente e con il suo adorabile sarcasmo). La giustizia è già in lei, è solo in lei. Il Jacques Derrida citato – e forse anche eccitato - sopra ebbe a dire che il rapporto all’altro è giustizia (Addio. A Emmanuel Lévinas), giustizia evocata dalla responsabilità per l’altro. Giustizia, nell’accezione di Derrida è lasciar l'altro essere altro. Michèle è come se avesse trovato nel trauma, in questo evento, un precipitare in lei di questa chiamata alla giustizia. All’unica giustizia possibile: la sua. Non quindi il diritto propriamente detto ma l’oltrepassare il diritto, da qui il negarsi un aiuto esterno. Una decisione giusta e responsabile deve essere “conservatrice della legge e abbastanza distruttrice o sospensiva della legge” (Diritto alla giustizia). Michèle vive con coerenza queste contraddizioni. Insomma, le sue altre esperienze di vita l’hanno temprata, e ogni altra cosa appare meno grave. Non trascurabile, ma non così definitivamente tragica. Questa visione adamantina le permette il massimo controllo, la massima lucidità e men che meno le permette di non essere una vittima. Okay, mi sembra di aver sparato sufficienti cazzate per convincerti a guardare codesto film di Verhoeven tratto dal romanzo Oh… di Philippe Djian (Oh, ma che titolo di merda per un libro). E ora quindi che si fa? Dio, non so mai veramente come concludere una non-recensione, specialmente se verbosa ed inutile come la suddetta. Forse l’ideale sarebbe citare un brano delle 7 Year Bitch, tipo questo che dice I don't have pity not a single tear for those who get joy from a woman's fear. I'd rather get a gun and just blow you away then you'll learn first hand. Dead men don't rape. Dici che è calzante?


*https://www.theguardian.com/film/2016/may/27/paul-verhoeven-elle-isabelle-huppert-rape-comedy

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