DHEEPAN di Jacques Audiard (2015) Tous les jours c'est une grande merde

L’altro giorno mentre camminavo come un flâneur pensando ai capelli di Magdi Cristiano Allam ho iniziato ad interrogarmi a proposito di questo anno turbolento, caratterizzato nello specifico dalla minaccia terrorista (oltre che da gente famosa morta). In particolare cercavo di trovare una qualche visione di insieme dei drammatici fatti francesi, accludendo al tutto tre cose: 1) Il titolo del giornale Libero apparso il giorno dopo gli attentati a Parigi (il titolo era Bastardi islamici); 2) Massimo Giletti che apre il suo programmone domenicale dicendo “Non abbiamo più il coraggio di essere cristiani”; 3) I moti di santificazione per Oriana Fallaci. Ecco, di ciò mi sono chiesto il perché. Il perché di cotale penosa retorica identitaria, giustizialista, provinciale. Sulla scia del Vargas Llosa targato anni Ottanta ho letto in queste reazioni (o erezioni) un brufolo ideologico totalizzante oltremodo malsano e sconclusionato. Per quanto riguarda il vomitevole titolo di Libero ho pensato al mento asburgico di Maurizio Belpietro e al suo rapporto con la fellatio in seno al mento asburgico. Sul fatto che Massimo Giletti reclami l’identità cristiana ho pensato all’utopia del cristianesimo che si fa dogmatismo e fanatismo tanto e quanto ciò che vuole combattere. Sul fatto dell’invocazione al chiedere scusa ad Oriana Fallaci mi è parsa l’ennesima cazzata buttata lì e soprassiedo. Or bene ho continuato a camminare per le strade cittadine, interrogandomi sul quando Magdi Cristiano Allam si deciderà a tagliarsi i pochi capelli che gli rimangono sulla capoccia. Dopodiché mi sono messo a pensare al film Dheepan di Jacques Audiard che avevo giusto visto al cinema pochi giorni addietro. Il film (per dirla subito: mi è piaciuto) parla di una famiglia tamil che fuggendo dalla guerra in Sri Lanka si trasferisce clandestinamente in Francia. Fino a qui le tematiche del film sono oltremodo attuali, ci riguardano. L’unica differenza è il capovolgimento attuato da Audiard, un ribaltamento di prospettiva che porta a domandarsi: chi sono i civilizzati? Da cui poi Liberté, Égalité, Fraternité nonché i vari Je suis vattelappesca.
Cosa si dichiara nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino? Leggendo il testo da un altro punto di vista se ne possono scorgere le linee fondamentali. Vivi in uno Stato che è indipendente da qualcosa come tre secoli. Vivi la tua vita di tutti i giorni; mangi, vai al pub, scopi, ti innamori, ti godi il sole. Ad un certo punto (nel 1830) arrivano dei saccheggiatori e dei razziatori pronti a far del tuo Stato un loro stato. La loro logica è: voi siete dei selvaggi ignoranti, noi siamo la ragione. Settantamila uomini super cazzuti che avanzano verso casa tua. Chi sono questi bruti? Pazzi invasori? Bastardi islamici? No, sono civilissimi francesi che sbarcati in Algeria “mirano alla conquista dell’intero paese e alla distruzione dello Stato arabo”*. I loro mezzi non sono molto en passant. Per intendere la loro attenzione ai diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino basti pensare al poco amabile colonnello Aimable Pélissier che all’alba del 20 giugno del 1845 contò scrupolosamente millecinquecento corpi; millecinquecento persone (uomini, donne, bambini e animali) affumicati all’interno delle grotte dove si erano rifugiati. Il generale Bugeaud, a capo dell’operazione, aveva non a caso ordinato “Affumicateli senza pietà, come volpi!”. Gustandosi dell’ottimo champagne il paffuto generale “impone una disciplina di ferro ai suoi soldati, ma in cambio, dopo la vittoria, gli concede tutto: saccheggi, stupri, violenze”. Je suis Bugeaud! Pare si gridasse all’epoca. Nel 1833 il re Louis-Philippe I scriverà: “abbiamo superato la barbarie dei barbari che eravamo venuti a civilizzare”. Mentre Alexis de Tocqueville arrivò a sostenere che, messe così le cose, è negli arabi che si incontra la civiltà giacché “Noi facciamo la guerra in modo più barbaro”. Nel 1871 l’Algeria è ormai francese. Un po’ di tempo dopo, l’8 maggio del 1945, a seguito della sconfitta della Germania e quindi testimoini della ventata di ottimismo, gli abitanti delle cittadine di Sétif e Guelma si riunirono per chiedere, con una manifestazione, l’indipendenza. Il primo atto di ribellione dell’Algeria moderna. I francesi non furono d’accordo e obiettarono sparando. La popolazione insorse. Per sedare la ribellione i francesi misero momentaneamente da parte il foie gras e presero a bombardare e a saccheggiare senza pietà per settimane. Gli algerini in fuga non ebbero scampo, braccati sulle montagne dal fuoco dell’aviazione e sul mare dalle navi da guerra. Pare che le cronache di allora non menzionino tizi che suonano Imagine di John Lennon al pianoforte accanto ai luoghi di morte.
Sulle note della Marsigliese la Francia esercitava quanto meglio poteva la sua visione del mondo, la sua Weltanschauung, giusto per usare un’espressione che fa sempre molto poliglotta. L’indipendenza dell’Algeria arrivò a 132 anni dallo sbarco dei francesi, il 5 luglio del 1962. La lotta alla decolonizzazione tuttavia aveva ormai assunto nuove inquiete strade che la scrittrice Wassyla Tamzali commenta così: “Nell’Algeria indipendente non c’era più un padre a ristabilire l’ordine delle cose. Il Paese che si affacciava alla storia l’aveva ucciso. Era il regno dei fratelli” e la fratellanza non si preoccupava molto di ciò che era fuori dalla sua cerchia fraterna. L’Islam aveva fatto da collante per il popolo algerino invaso e violentato; era divenuto il luogo di ribellione. Con l’indipendenza questo ruolo da area dei malcontenti era rimasto vivo. Chi vuole opporsi diventa islamista. Più precisamente i fondamentalisti islamici entrano in scena a seguito delle insurrezioni del 1988, insurrezioni represse nel sangue. Ad accogliere la rabbia delle vittime ecco quindi i gruppi islamisti. Evento esemplare – se così lo si può chiamare – di questa deriva nella guerra civile è il massacro di Bentalha tra il 22 e 23 settembre del 1997. 400 morti per mano islamista (con l’appoggio del governo stesso) e una foto simbolo, la cosiddetta Madonna di Bentalha. Le vittime dei colonizzatori del passato sono diventati i carnefici. Un uomo molto figo di nome Frantz Fanon, cercando di trovare delle risposte, scrisse che il male subìto da tutta una generazione d’algerini “immersa nell’omicidio gratuito e collettivo” era un’eredità della Francia in Algeria. E parafrasando il celebre Discorso sul colonialismo di Aimé Césaire (testo che prima o poi vorrei portare a teatro), una nazione colonialista, una nazione che giustifica la colonizzazione è una civiltà malata, “una civiltà moralmente compromessa”. Una civiltà che continuando a rinnegarsi richiama inevitabilmente il proprio castigo (qui Césaire fa riferimento ad Hitler, è lui il castigo; in senso ovviamente marcescente). I traumi insomma vanno elaborati e non taciuti nell’oblio della rimozione, se questo non accade la conseguenza è altro sangue.
Ora, questa piccola introduzione probabilmente appare eccessiva, e lo è. Nel senso che ci sarebbe stata bene per un film come Niente da nascondere ma per Dheepan che ci azzecca? Forse nulla. Ma un qualche commento ai fatti attuali lo volevo fare. Certo, se riprendessi il film di Haneke la questione sarebbe più calzante. Quel film, secondo me, è una formidabile metafora del rimosso e della colpa francese. Ad ogni modo, anche nel film di Audiard si parla di rimozione e di cosa la guerra trascrive nell’animo degli uomini. Si parla di identità e si parla di Francia. Una nazione colonialista - con un passato così pesantemente colpevole - come accoglie lo straniero? Quello straniero che fino a poco tempo prima veniva considerato parte di un piccolo popolo selvaggio, pigro e ignorante. L’intento di Audiard è dunque quello di mostrarci nel dettaglio quei volti che vediamo in televisione, al telegiornale. Facce nascoste in un'unica forma di massa (massa clandestina, come si potrebbe dire in Italia). Dare un volto a qualcuno è un ottimo primo passo per dargli dignità. Paradossalmente, i volti dei protagonisti del film si affacciano a noi, si mettono a fuoco, conquistando una identità nella menzogna, nella messa in scena. Un tema (come dice lo stesso regista**) da commedia classica. L’identità fittizia che genera surreali sviluppi. Il contrasto tra un tema potenzialmente comico inserito in un contesto non comico conduce solitamente al tragico (a tal proposito mi viene da pensare al noto esperimento della prigione di Stanford nonché a qualche film che ora non ricordo).
In Dheepan abbiamo una famiglia che si finge tale per poter scappare da una realtà senza futuro. Il loro futuro per poter essere reale deve crescere nella finzione. Ecco quindi Dheepan, ex soldato delle Tigri Tamil, unirsi ad una donna (Yalini) che si finge madre di un’orfana (Illayaal). I tre sconosciuti vanno in cerca di una nuova vita in Francia, in un quartiere imprecisato (nella realtà è il quartiere di La Coudraie, nella cittadina di Poissy). Lui trova lavoro come guardiano tuttofare, lei come badante e la bambina viene inserita a scuola. Inutile dire che i tre si ritroveranno innanzi a svariate problematiche, anche se in questo caso quel mattacchione di Matteo Salvini non c’entra nulla. Il punto centrale comunque è un altro, vale a dire il loro farsi famiglia. Cosa abbastanza complicata giacché il loro piccolo gruppo deve inserirsi in un altro piccolo gruppo, quello della banlieue. Una banlieue più vicina a quella violenta de L'odio di Kassovitz che a quella con qualche speranza de La schivata di Kechiche. Tuttavia, il buon Audiard non ci vuole ammorbare con un drammone. L’elemento comico insito nel gioco di ruoli permette una certa leggerezza nonché un certo respiro. Cosa ci dice Dheepan? Ci ho riflettuto mentre camminavo pensando ai capelli di Magdi Cristiano Allam e poco prima di cercare di ammansire un attacco di panico (la vita sociale non fa proprio per me); sono giunto alla conclusione che il film parla anche dell’incapacità di relazionarsi all’altro. Parla di una integrazione che deve ancora trovare le sue basi. Basi che ovviamente non passano per le barriere, i proclami e gli inviti a “rimandarli a casa loro”. Certamente questo modo di rappresentare i francesi può oltremodo dar luogo a fastidi.
Ho letto una recensione di casa francese abbastanza contrariata da Dheepan. L’autore della recensione dava ad Audiard dell’ignorante, dello stupido. Un arrogante regista di un disgustoso film politico. Potrebbe succedere la stessa cosa anche in Italia se qualcuno girasse un film su immigrati che fuggendo da una guerra si ritrovano ad essere etichettati, insultati o rinchiusi in un centro di permanenza temporanea. Si potrebbe sostenere che si dà dell’Italia un’immagine sbagliata, che l’Italia non è un paese razzista. A patto però di rispedire ‘sti negri a casa loro. Insomma, immagino che qualcuno potrebbe offendersi. In Francia invece hanno dato ad Audiard la Palma d'oro. Un premio chissà, forse meritato (questo non è sicuramente il miglior Audiard), per un film che ci racconta di identità e finzione e fantasmi da affrontare. Il tutto all’interno di un contesto a tratti politico ma più che altro corporeo, umano-singolare. Esemplificativa di quanto sto blaterando potrebbe essere la sequenza in cui un tormentato Dheepan si mette a cantare. Quella scena io l’ho vista pienamente allacciata a quella – fantastica – che vede Marion Cotillard danzare sulla sedia a rotelle. Se in Un sapore di ruggine e ossa i movimenti del personaggio della Cotillard ci volevano mostrare una riconquista del corpo, una accettazione, in Dheepan c’è invece una lotta ancora in corso. Dheepan canta con rabbia i demoni della guerra che ancora lo perseguitano. Meno rabbia troviamo invece nel personaggio di Yalini. È su di lei che Jacques Audiard dà il suo meglio. Dal punto di vista meramente cinematografico le regala due sequenze molto fiche. Due momenti muti ma carichi di un meraviglioso non detto. Un momento di amore e uno di morte, se così si può dire. Or bene, superfluo lodare l’interpretazione di Kalieaswari Srinivasan e chissà come si pronuncia il suo nome. E chissà come si pronuncia il nome di Jesuthasan Antonythasan (Dheepan), attore che è stato veramente un guerrigliero Tamil. Anche lui, fuggito dallo Sri Lanka con un passaporto falso, si è poi mosso nelle periferie francesi fino a diventare non un guardiano ma uno scrittore. Detto questo, posso anche andarmene. Come al solito mi sembra di aver detto troppo poco del film e molto di laterale o bilaterale. Per fortuna non mi pagano per scrivere, altrimenti sarei già stato licenziato.

*Voci e silenzi postcoloniali by Renate Siebert

**http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2015/10/08/news/intervista_a_audard_deephan_il_mio_film_palma_d_oro_sull_integrazione_possibile_-124625503/

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