COMPLETE UNKNOWN di Joshua Marston (2016) La recensione completamente sconosciuta
Ciao, come va? Anche oggi è una splendida giornata? Mi è capitato di guardare Complete Unknown ed ora non so precisamente cosa pensarne o cosa dirne, o viceversa. Riflettendoci mi viene da pensare che è un film strano, improbabile, senza una direzione precisa, forse addirittura raffazzonato. Tale opinione tuttavia non corrisponde per niente a quella che mi ero fatto durante la visione. Già, perché mentre lo guardavo pensavo: “Questo film mi piace un sacco!”. Mi piaceva la struttura, mi piacevano i dialoghi, mi piaceva come era diretto, mi piacevano quelle sottigliezze nel raccontare una vicenda inverosimile, bizzarra. Mi piaceva che le cose non venissero narrate pedissequamente ma che si lasciasse spazio allo spettatore. Mi piacevano i due protagonisti; ho pensato fossero una delle più belle coppie viste di recente al cinema. Ad un certo punto mi sembrava di leggere un romanzo di DeLillo. Mi appariva come una vicenda postmoderna. Un modo altro per fotografare la realtà, uno spostamento molto affascinante delle categorie. La ritrazione del senso comune, del famigliare, per lasciar posto all’improvvisazione, all’inaspettato. Davvero, guardandolo pensavo che tutto ciò fosse bellissimo, che fosse il mondo come io lo vorrei. Vorrei questa materia umana, questo modo di dirsi le cose, questo modo di seguire gli eventi e di lasciarvisi trascinare. Poi però ho pensato che il film parlasse di menzogna e quindi non so se è il mondo ove vorrei morire. Menzogna e anonimato. Un anonimato che si localizza in identità multiple. Dovresti vedere il film per capire le cose insensate che sto scrivendo. Spero tu lo faccia.
Quindi, lasciato passare un po’ di tempo la mia opinione a riguardo di Complete Unknown è cambiata? Da film bellissimo è diventato uno sdutto oggettino? Sto valutando la questione proprio adesso mentre scrivo e devo dirti che no, non ho cambiato idea sul film: mi è piaciuto assai. È alla fine come il sognare. In quel momento le cose ti appaiono con una logica e poi una volta sveglio ti chiedi come hai potuto crederlo, quella non era la realtà. Stavi solamente sognando. Ho avuto questa impressione del film. A parlarne ad una certa distanza sembra che vengano fuori tutti i suoi difetti, a guardarlo più da vicino invece si fanno avanti solo i pregi. Da dire che il primo lato positivo è Rachel Weisz, che qui “interpreta ”Alice. Rachel Weisz trovo che sia incredibilmente figa. Altro aspetto positivo è il protagonista maschile, Tom, interpretato da Michael Shannon. Non credo che Michael Shannon sia incredibilmente figo ma è uno di quelli attori che sa essere mostruoso. E anche se in questo film non deve fare il pazzo inquietante riesce ugualmente a donare inquieto spessore al suo personaggio. Tutta quella prima parte in cui c’è lui che alla cena incontra Alice è strutturata in modo fantastico. Ma anche quello che viene prima è allestito alla grande. Si crea come una tensione, e tu sai che Tom dovrà vedere Alice e sai che qualcosa dovrà succedere. Ma non sai cosa e non sai perché. Joshua Marston (regista di Maria Full of Grace) apparecchia il tutto con estrema cura e, giustamente, se la prende comoda per arrivare lì dove avverrà l’implosione. E anche lì poi non vi giungerà facendo davvero saltare tutto per aria ma lasciando spazio ad una quiete incisiva; dissipando una flemma che ha quello speciale sapore della fine.
Gran parte della nostra esistenza in fondo è anche questo: la perdita e la sua elaborazione. Alice deve aver preso a prestito le ragioni di Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno e centomila. Rinascere e morire, il tutto nella graziosa forma della contingenza. Traducendo Kierkegaard, il mio ex professore di filosofia potrebbe dire che sì, ogni emozione ha un tono ontologico. E se poi sei fortunato (ma dipende dai punti di vista) l’ontologia può avere un carattere duale, di coppia. Ed è quello che accade ad Alice e Tom. Come intuiamo all’inizio del film, i due si stanno preparando ad andarsene. Andarsene dagli altri e dalle identità che gli altri credono loro abbiano. Alice è più esperta in questo, per Tom invece il discorso è più velato. Non è un caso che la pasticceria, il giorno del suo compleanno, gli sbagli il nome sulla torta. Ed ha un suo significato il fatto che gli amici di Tom lo fraintendano o pensino cose che lui non pensa. È inevitabile che Tom ed Alice arrivino quindi a confrontarsi, avendo così tante cose in comune. Si indirizzano a vicenda, senza prevalere l’uno sull’altra. Alice in particolare ha poi questo modo gentile di difendersi dagli altri. Ed ha questo modo delicato di aprirsi a Tom. Ad un certo punto lei fa un piccolo gioco di magia, come a dichiarare una volta per tutte l’inganno e la sua fascinazione. Ma è anche un piccolo dono per Tom, per alleggerire l’ambiente. E lì Tom, che fino ad allora appariva fin troppo serio ci concede un sorriso. Quel sorriso è la traccia di un legame a noi ignoto con Alice ed è anche un atto di distensione. Come detto, solo loro due però vivono in quella sorta di sospensione dal mondo. Una sospensione che, bada bene, non è esser sdolcinati, amorevoli, infinitamente sulle nuvole. La loro sospensione è una messa tra parentesi del mondo, una parentesi ingannevole respinta e cercata allo stesso tempo. Non c’è cellulare che tenga quindi. Mentre il mondo, assorbito nella propria autenticità ed elaborata ragionevolezza, si inalbera per l’inganno. Rumoreggia per l’evidente frantumazione dell’io, per la sfrontatezza della maschera, per questa esposizione degli stati incoerenti dell’io. Insomma, per la presa per il culo. Solo noi, forse, sappiamo invece che quello che si crea tra Alice e Tom è proprio quel disperato bisogno di autenticità raccontato da Pirandello. In fondo non era Pirandello che vedeva nella famiglia la trappola per eccellenza? La famiglia ma anche il lavoro. Ed infatti, ad inizio film vediamo come il lavoro costituisca un problema e vediamo come il legame di Tom con la moglie sfoderi una certa incomunicabilità. Senza accusare prettamente nessuno dei due di questo; la moglie di Tom è tutto tranne che una nevrotica stronza.
Ho maldestramente detto che il film mi ha ricordato DeLillo; curiosamente all’inizio qualcuno parla di “rumore bianco”. L’accezione è quella di intervallo di frequenze e si potrebbe in fin dei conti pensare che Complete Unknown sia questo: un suono che snobba gli altri suoni. E quindi un suono che ti allontana da tutto e che magari ti fa pure addormentare. Infatti, non escludo che qualcuno possa addormentarsi guardando questo film ma soprattutto leggendo questa non-recensione. Che dire allora se il rumore bianco diventa quello delle rane? Capirai a cosa faccio riferimento guardando il film. Noterai quindi come tutto sia strutturato in un modo molto accurato. Una cura che si lascia andare con convinzione ad una cornice intima ma per nulla edificante. Permane il sapore della tragedia, o per meglio dire si assiste ad una norma che Virgilio sottoscrive: l’infelicità è intrinseca ai sentimenti. Alice per sfuggire o dimenticarsi dell’infelicità si trasforma. Un tema antico come il mondo. Dico, pensa alla letteratura latina. Ci stai pensando? Pensaci un po’ più forte… Ecco sì, quello. Il trasformare, l’immutare, che accompagna le pagine de le Metamorfosi di Ovidio. Alice è una postmoderna volta-pelle, una versipellis. Indicativo che sia lei a notare il fossile di un serpente, lasciato in un angolo dimenticato. Tra l’altro, mi piacerebbe dire qualcosa di sensato sulla questione del mutare; ma il mio vocabolario è così limitato che neanche se mi astenessi dai sostantivi e mi appropriassi in modo fitto di complementi di materia sarei in grado di oggettivare la questione. Faccio pur sempre parte di quelli che sanno scrivere “un poco”; sono uno da pronomi indefiniti. Tuttavia posso terra-terra attingere alla pragmatica, ossia unire i puntini e dar forma alle connessione logiche per interpretare un messaggio. Una operazione di inferenza. Complete Unknown in fin dei conti ci offre degli spunti, non chiarisce il suo enunciato. Resta tutto sospeso. E la mutazione è una diramazione del superamento. No, non sto dicendo che devi concentrarti e pensare all’Aufheben di Hegel. Le mutazioni di Alice sono il risultato di una esasperazione. Immagina che anche tu viva nel pieno delle tue contraddizioni. Nella astrattezza dei tuoi atti più intimi e più nascosti. Le tue minute peculiarità, i tuoi invisibili gesti anche solo mentali. La tua irrequieta quotidianità nascosta. Così nascosta da farsi poi contraddittoria alla luce del giorno, cioè alla luce degli altri. Allontanandoti ora da ciò che vedi, andando all’indietro e in prospettiva, che cosa registri? Scopri che alla fine è un tratto, è un gesto ad attraversare l’inquietudine e la piccola spettacolarizzazione di un equilibrio. Ed è questa l’identità che ci costituisce, o almeno io la vedo così. Il passaggio dal me inquieto al me pubblico, attraversando quel tratto – o quel ponte – che disegna la nostra struttura.
Questo passaggio, questo attraversamento costitutivo, è ormai un automatismo. Un gesto divenuto col tempo così comune da non apparire più. Dalla irrequietezza singola alla contraddizione dell’unità, dell’unità con gli altri. La vera pietra tombale a tutto ciò è l’autoriflessione. Il disvelamento dell’inganno, il suono troppo irritante di quel tratto che viene tracciato. La riscoperta della natura necessaria dell’inganno stesso. Fortunatamente anche lo specchio ci beffa. Non ci mostra per come siamo. Ci fa uno scherzo e ci sposta. L’inganno è davvero primario ma anche anticiparlo lo è. Le mutazioni di Alice corrono in questa direzione: spostarsi dalla frode con un’altra frode. Come si evince poi dal film, un punto di “ristoro” dovrà pur esistere. Per reggere il peso. L’isola di Alice si chiama Tom o l’isola di Tom si chiama Alice. Lei conosce già la natura del trucco e trovare un complice nobilita lo spettacolo. Io da questo ne sono rimasto affascinato. Anche perché lo spettatore è invitato a partecipare. Non vieni spinto per forza, non ti si spiega tutto. Se come me accetti la modalità l’apprezzamento sarà cospicuo, in caso contrario molte cose ti si paleseranno senza senso alcuno. Intercetterai la noia se non il dileggio. E non ti dico che sia sbagliato, dico solo che primeggia il versante della prospettiva. Come più o meno in tutte le cose. Alice fa cose strane, riflettendoci a freddo ti sembrano oltre che strane anche inverosimili. Bisogna far ricorso alla buona volontà per trovare plausibile una donna che passa da una vita all’altra, da un lavoro all’altro, con tanta disinvoltura. Ci sono professioni che non puoi inventarti da un giorno all’altro, devi dedicarci la vita. E invece Alice ci dedica pezzi della sua esistenza. Non è impossibile (viene da pensare al Frank Abagnale raccontato da Spielberg in Prova a prendermi, anche se per Frank si trattava di truffe) ma forse è un po’ troppo. O forse è il ristretto (ma non poteva essere altrimenti) spazio dedicato al passato di Alice a pesare. Facciamo che, citando (o eccitando) a sproposito ancora Hegel, alcuni piccoli passaggi del soggetto del film non sono una perdita astratta della ragione ma una “contraddizione entro la ragione stessa”*. C’è della logica nella veduta intellettuale. Ed è con questo mio manicheismo irritante che ti saluto. Segnalando in aggiunta un altro dei tanti bei momenti di Complete Unknown, Kathy Bates e Danny Glover. Deliziosa coppia anche la loro, speculare a quella costituita da Alice e Tom, qui infatti è Danny Glover ad essere il modificatore di verità. Or bene, sì. Ripensandoci meglio, questo film mi è piaciuto molto. In tutte le sue soluzioni e in tutta la sua falsificazione. Dai dialoghi che a volte si intersecano in modo atipico alla regia di Joshua Marston. Spero che tu lo veda e spero che ti piaccia. Dopo averlo visto io ho ripensato ancora di più a me stesso, alla mia identità che è come una traccia di un fuoco spento. E da lì le ragioni di Alice mi sono apparse la cosa più sensata del mondo. Ho messo su un brano dei The Kills, The Last Goodbye e mi sono steso per terra. Avrei voluto fare l’angelo sul tappetto ma mi sono limitato a guardare il soffitto, in una inutile ricerca di quel me che probabilmente non ho fatto in tempo neanche a salutare.
*Enciclopedia delle scienze filosofiche, paragrafo 408
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