BRIDGEND di Jeppe Rønde (2015) Il canto del Galles

In molti tendono ad evidenziare che uccidersi non sia bello. Ed in effetti le cose stanno proprio così. Come credo scriva anche Camus, togliersi la vita equivale al rinunciare ad una libertà più che inseguirla. O forse l’ha detto mio nonno stamattina. A ragione l’argomento è tabù. A tal riguardo in questi ultimi travagliati anni il suicidio ha assunto poi delle connotazioni che travalicano l’intimo malessere: ci si uccide per causare stragi. Il risultato quindi è drammaticamente curioso. Nel senso che una delle motivazioni che spingono a non parlare di individui che si uccidono è l’evitare il cosiddetto effetto Werther, vale a dire - in parole povere – il dar notizia dei suicidi produce ulteriori suicidi. Tale norma valeva per gli episodi, diciamo, strettamente personali. Oggi invece (qui apro parentesi) la parola “suicidio” ha assunto una dimensione quasi quotidiana sui media. Se ne parla molto, per forza di cose. Ecco dunque ogni tanto sbucare persone pressoché disinteressate alla distruzione jihadista che decidono di uscire di casa, fare più vittime possibili e poi puntarsi una pistola alla testa o un coltello alla gola. Si mettono magari a gridare Allah Akbar (che sovente preferirei interpretare come un annuncio tipo Allah è al bar, con Gesù, Buddha e Nonna Papera) ma la questione ideologia non c’entra nulla. Sono solo individui avvezzi al suicidio per imitazione. Si evince pertanto quanto l’argomento sia delicato giacché travalica la morte del soggetto in causa (chiusa parentesi abbastanza grossolana sull'attualità e su cose che c'entrano praticamente nulla col film). Nel girare or dunque un film incentrato sul tema del suicidio bisogna  andarci con cautela. Ecco quindi che il regista danese Jeppe Rønde ci prova con il suo primo lungometraggio, Bridgend. Cosa significa Bridgend? Bridgend è un piccolo centro di 39.000 abitanti nel sud del Galles che tra il 2007 e il 2012 ha visto il suicidio di 79 persone, in grandissima parte adolescenti tra i 13 e i 17 anni. Una casistica oltremodo impressionante, si pensi poi che il fenomeno non si è arrestato. Il nostro Jeppe Rønde dopo aver letto di ciò ha deciso di prender baracca e burattini e di partire e sbarcare nella cittadina gallese, iniziando una ricerca durata 6 anni. Come lui dice*, arrivato in quel di Bridgend ha avuto le medesime impressioni sperimentate in passato a Gerusalemme durante la Seconda intifada: l’ego è stato soppiantato dalla religione. All'io si sostituisce un noi (e anche il Super-io va a farsi un giro). Ciò che io sono viene sostituito da un Noi guidato da “un potere universale condiviso, seducente e totalizzante (…) qualcosa di più grande, di strano e violento”. L’identità viene concentrata nel gruppo.
Il film di Rønde non racconta prettamente una storia vera, ricalca i fatti inserendo personaggi inventati. Ecco allora che abbiamo una giovane fanciulla di nome Sara (interpretata da Hannah Murray nota per Game of Thrones) che con il padre poliziotto ed un cavallo arrivano nella piccola comunità. Il padre dovrà indagare e la figlia si troverà invece costretta a relazionarsi. Il film ci porta a seguire Sara, ad essere con lei a stretto contatto. Ma via via che la vicenda si espande anche noi ci ritroviamo a distanziarci e questo (dal punto di vista meramente cinematografico) è un qualcosa di interessante. Più il film prosegue più lo spettatore si allontana dalla protagonista, la perde ritrovandosi letteralmente la porta chiusa. Grattandomi il mento ho riflettuto intorno a codesto e ad altri aspetti e devo dire che, or ora che scrivo, non ho ancora ben a fuoco molte cose. La mia prima e forse unica domanda: è giusto che il film sia così? Il regista non vuole chiarire la questione suicidi. Noi non abbiamo delle risposte nette a riguardo di quello che sta succedendo a Bridgend. Vediamo questi ragazzi e queste ragazze che si muovono in massa. Non affrontano tra loro tematiche pregnanti; il lutto per gli amici morti lo esternano in una chat dalla interfaccia primitiva o semplicemente uscendo nel bosco per mettersi ad urlare alla Luna non prima di essersi denudati. Per il resto che fanno? Si ubriacano. Le ragazze si truccano o ballano e i ragazzi fanno i maschi alfa a turno. Tutti eccetto Jamie (interpretato da Josh O'Connor, attore che io terrei d’occhio), il figlio del prete. Jamie è quello un po’ più combattuto ed è anche il protagonista di una sequenza oltremodo bizzarra. Non credo di poter dire che l’introspezione non vi sia ma è come se tutto il film si ritrovi ad essere una introspezione diluita. Una massa gommosa estesa dalle prime immagini fino ai titoli di coda. C’è una introspezione distorta, alienata e a volte pompata con gli assordanti suoni del musicista noto ai più come Mondkopf. È quindi giusto che il film sia così? Forse sì. Il tema lo impone.
Più che una serrata e convincente analisi su codesta epidemia il regista attua un passaggio a distanza ravvicinata, la sua macchina da presa guarda alle sensazioni più che ai fatti. Non a caso i momenti che mostrano le indagini del padre di Sara sono sporadici e approssimativi. Ma anche il padre di Sara è in effetti sporadico e approssimativo. Questo punto di osservazione a distanza ravvicinata riguarda saggiamente anche l’evento del suicidio. Jeppe Rønde ha allestito non tanto una cronaca ma uno stato d’animo. Possiamo cercare di razionalizzare, di seguire una logica ma perlopiù ci ritroviamo come i binari che appaiono nel film: la linea che seguiamo si perde nella nebbia e nella vegetazione. E questo non solo perché ci troviamo nei luoghi di una ex cittadina mineraria. Sicché questo modo di affrontare i fatti di Bridgend appare ragionevole. Se poi si pensa che una delle risposte più accreditate sia proprio l’effetto Werther sopra citato. Vale a dire, il piccolo centro di Bridgend, situato sulla sponda occidentale del Galles del Sud, non è affetto da una maledizione ma dall'emulazione, dal Copycat Effect (giusto per usare parole fighe). Gli stessi abitanti hanno iniziato a dar la colpa ai giornalisti, che infatti non son ben visti. Insomma, il paese è piccolo, la gente mormora, ci sono i divari generazionali, c’è di conseguenza una difficile comunicazione tra gli adulti e i giovani**; ragazzi e ragazze che si lasciano così facilmente trascinare da una forma comunitaria debilitata e debilitante. Creare or dunque il caso dei suicidi non aiuta moltissimo. Qualcuno ricorderà cos’era successo alle vergini suicide di Mileto. Fanciulle che si impiccavano come i ragazzi di Bridgend. Come documenta Plutarco la catena di suicidi venne arrestata mostrando le conseguenze brutali del suicidio, nella fattispecie lasciando esposti i cadaveri fino alla putrefazione, arrestando il passaparola e le chiacchiere con la cruda realtà nonché con l’enorme imbarazzo in seno alla prospettiva di finire esposti in piazza. In una società emancipata come la nostra lo scioccare non risolverebbe le cose, anzi. Nel nostro piccolo basti il constatare come le immagini dissuasive sui pacchetti di sigarette non arrestano il consumo di sigarette. Io però non fumo e neanche tu dovresti farlo. Potresti ribattere: “Eh, certo, detto da un alcolista”. Sì, sì, te ne do atto ma le sigarette fanno lo stesso schifo.
Bridgend di Jeppe Rønde. Un film sulla tendenza imitativa tipica del periodo adolescenziale. Ma non solo questo. Film che non mira a rendere romantico l’atto del nuocere sé stessi ma che si addentra come una figura invisibile nella cerchia di ragazzi un filino depressi. Bridgend non ci dice moltissimo in termini di indagine, tuttavia se lo avesse fatto sarebbe potuto risultare… Non so. Sto semplicemente delirando. Diciamo che questo modo di affrontare una vicenda altamente delicata e per giunta drammaticamente reale ha i suoi pregi e i suoi difetti. Se ora sbucasse un tizio alle mie spalle per dirmi “Ma cosa scrivi? Questo film è penoso ed è moralmente inaccettabile! Vuoi parlare di suicidio ma poi non ne parli. Vuoi avvicinarti ad un disagio ma poi non mostri niente e non dici niente. Ci propini solo noiose sequenze di gente che balla o si tuffa nel lago. Il tutto con quella musica del cazzo! Ma vaffanculo!”. Ecco, se questo qualcuno sbucasse effettivamente alle mie spalle per dirmi ciò io non me la sentirei di dissentire, al limite mi domanderei da dove diavolo sia sbucato e perché. E capirei il suo punto di vista. Nel senso che è innegabile che il film sia proprio questo. Una situazione complessa affrontata in modo approssimativo con in aggiunta tutti i difetti dell’opera prima, ossia quella ricerca dell’immagine allegorica che a tratti è mero esercizio. Il finale in tal senso forse eccede un pochetto; Ofelia inizia ad esser un filino inflazionata. Un film monodimensionale, senza spina dorsale. Un film dove le uniche sequenze riuscite sono quelle a cavallo del cavallo. Sì, però visto anche da un’altra prospettiva il regista danese non poteva che farlo in tal modo il suo film. E vi è una grande parte di me che crede che lui abbia fatto un ottimo lavoro. Ci ha messo del tatto. Non è necessario fornire risposte. Quel capolavoro pazzesco de Il nastro bianco di Haneke non fornisce risposte. Genera domande, affascina, inquieta. Jeppe Rønde non ha girato un film del genere ma comunque il suo non spiegare non nasconde una incapacità nel narrare, e fa pure rima. Or bene, io il suo Bridgend lo promuovo con una bella stretta di mano. Bravo Jeppe, continua così. L’eventuale suo secondo lungometraggio ci dirà con maggior chiarezza che regista è. Per ora porta a casa il risultato. Tra l’altro al Tribeca Film Festival 2015 questo Bridgend si è conquistato un bel Best Actress, Best Cinematography, Best Editor, Special Mention debut Award. Devo ancora tradurre il significato di queste parole inglesi ma sospetto sian tutte cose positive.               

*http://www.cineuropa.org/it.aspx?t=interview&l=it&did=293769

**http://www.fangoria.com/new/qa-director-jeppe-ronde-and-the-darkness-of-bridgend/

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