BOYHOOD di Richard Linklater (2014) Il post perditempo

Non è facile distinguere il tempo fuori dal tempo, le discettazioni di Derrida a riguardo forse ci aiutano o forse non ci aiutano un granché in tal senso, giacché la sua idea di tempo deve essere collocata fuori dal tempo. I professori sono quasi tutti fuori dal tempo. Il tempo, per Jacques Derrida risiede, in parole povere e sconce, nell'occhio di chi guarda. O meglio, in parole mie, è nello scarico del cesso che la cacca ancora è e non è giacché se ne va. Nel momento preciso dello scarico, lì vi è un tempo al di là del tempo, è il tempo dello sguardo e del passaggio. In un movimento di scostamento o di scrostamento - nonché in un movimento di dito sul pulsante - testimoniato da un occhio che guarda vi è l'assenza di una assenza ancora in divenire; un divenire il cui lascito è la presenza fetida del fetido puzzare. Esso stesso sempre e ancora in divenire. L'odore è l'ultima presenza, è la traccia di un qualcosa che ormai ci è assente. La merda. Chissà perché nessuno ha ancora pensato di fare una sintetica e non stitica fenomenologia della defecazione. Quello che voglio dire, quello che voglio dire è: hai presente il sorriso enigmatico della Monna Lisa di Leonardo? È davvero enigmatico o lo è perché un giorno qualcuno si è alzato ed ha detto che per lui quel sorriso è enigmatico? Non è che quel sorriso ha assunto lo status enigmatico perché, non solo un tizio ha deciso la cotal cosa prima di andare a pisciare ma anche perché è stato il tempo a calcificare cotale giudizio squisitamente estetico? Il tempo fa la differenza in ogni cosa. Sovente lo fa in modo tragico e a volte o di conseguenza lo fa in modo escatologico. Nonostante io non sappia cosa esattamente escatologia significhi ma mi sembrava bello esteticamente inserirlo in cotale periodo sintattico. Il tempo, forse, darà ragione a queste serie di mie stronzate. Ad ogni modo, giovane lettrice o lettore di passaggio ti starai giustamente domandando cosa c'entri questo con Boyhood. Be’, io penso ci azzecchi giacché o in fin dei conti di cosa si discetta se non di tempo in Boyhood? Non è un film sul tempo? Non è, in misura oltre, un film sul film del tempo. Non è il tempo che si dispiega in funzione del cinema? o meglio non è il cinema che cerca di districarsi dalla sua stessa natura temporale? Come avremmo magari detto tempo addietro, nell'immagine filmica primeggia l'illusione. Il movimento è un'illusione. Quello che tu vedi sono immagini mobili immobili ma è poi la velocità (nel tempo e sul tempo) e l'illusione data da un qualcosa di non illusorio (l'occhio) che porta a registrare il movimento. Quello che io vedo è in realtà immobile e quello che è immobile è in realtà in movimento: il movimento dell'esistere, il movimento del passare da giovani a vecchi a morti in un battito di ciglia di un occhio âgé. Solo comprendendo questo si evince o si deduce la portanza cinematografica e artistica (non sovente le due cose coincidono ma d'altronde neanche i peli) di Boyhood.
In Boyhood nulla accade ma allo stesso tempo accade tutto. Accade tutto non solo in termini narrativi ma anche in termini diegetici o, come direbbe un tale di nome Étienne Souriau, nei termini di tutto ciò che è contenuto nel film. In Boyhood accade quello che ci accade costantemente ed ininterrottamente: il passare del tempo. Anzi, meglio, accade un attimo perpetuo, avviene un attimo in moto. Cogli l'attimo ossia cogli la vita nel suo essere una novità di secondo in secondo. E sarà forse un caso che in un film ove l'attimo di tutta una vita si dispiega cronologicamente uno dei suoi protagonisti sia un ex studente del professor Keating de L'attimo fuggente? Sì, probabilmente lo è ma Ethan Hawke al momento non è il punto. Ethan Hawke, che tenendo salda la certezza della sua vettura prova a districarsi in modo coevo - nonché astorico - dal quotidiano registrare la vita dei figli, della moglie, di sé stesso. Prendendosi il lusso di vedere più distintamente la crescita nel volto dei figli. Patricia Arquette, il personaggio più complesso e a suo modo più convincente del film, è colei che il tempo lo deve subire in pieno fino alle inevitabili e drammatiche certezze: non c'è nulla da fare, la vita scorre. La vita trascorre. Rapidamente. Che schifo. Ellar Coltrane, ossia il giovane Mason sembra invece non prendersi troppa cura di tutto. All'inizio forse si interessa di vespe ma poi pare che le cose gli scivolino addosso, o per meglio dire, non vuole essere troppo intaccato dalle facezie del vivere quotidiano. In tal senso anche il campionario espressivo dell'attore non muta granché col passare degli anni.
Curioso or dunque come ad un certo punto, quasi a compensare quel suo apparente imbambolamento, Mason trovi nella fotografia il suo occhio esegeta o il suo specchio esistenziale. L'unica figura (cioè Mason) che pare non curarsi troppo delle cose del tempo tiene a voler registrarlo, immortalarlo, fossilizzarlo; tende a non voler trascurare il tempo. C'è infine Samantha (Lorelei Linklater, figlia del regista che pare, ad un certo punto, volesse far uccidere il suo personaggio in quanto stanca di interpretarlo); più che altro è una testimone ma in fondo anche di più, è una sorella che patteggia per il fratello. Boyhood è questo, o per peggio dire, in Boyhood (difficile anche parlare di spoiler ora) non succede nulla. Come ha detto da qualche parte l'Ethan Hawke di cui sopra, l'evento del film è il non-evento. Se il film non fosse stato girato nell'arco di 12 anni e fosse stato girato come qualsiasi altro film, penso che potrei dire che Boyhood fa abbastanza cagare. Soldi buttati, tempo perso, pazienza sprecata, attesa disattesa, mi riguardo Die Hard per l'ennesima volta e mi sparo pure Babbo Bastardo e I Gremlins. Cazzo. Ma il fattore temporale insito nel progetto filmico non può giustamente esser trascurato a dispetto del fatto che la medesima cosa potrebbe essere fatta con Beautiful, la  soap opera. Prendere, via via dieci minuti di nulla (Brooke che fa la spesa, Brooke che parla con Bridget, Ridge che gioca a tennis, Ridge che va a pesca) e concentrare così 28 anni di vita-filmati.
Boyhood resta sì un film dove non avviene una beata mazza ma almeno avviene che il film avviene. La mia noia, come per magia, si dipana per dodici anni nel formato compresso di quasi tre ore. Fantastico! Questo è quindi sufficiente? Mah, penso di no ma va bene lo stesso. Nel senso che dal punto di vista di linguaggio cinematografico il tutto, nel complesso, è lodevole. A suo modo. Boyhood è un film che racconta sé stesso. Il simpatico critico Canova forse parlerebbe di testo metanarrativo: “Una strategia per continuare a far vivere l'immagine”*. Ossia, il cinema contemporaneo ha smesso di pensare ad un'idea di finzione atta ad enfatizzare o a tappare i buchi dell'ottica umana. Il cinema contemporaneo “Sa che la tecnologia, lungi dal servire a riprodurre il vero, serve sempre più spesso a simulare il falso, e non si fida. Non crede più che il semplice gesto del guardare un'immagine significhi anche conoscere il mondo che in quell'immagine viene mostrato.” E se posso, cito (spero non in eccesso) ancora Canova quando parla di sostituire alla vista il tatto, in virtù del “Fallimento dei sogni di onnipotenza dello sguardo e la scoperta che questi, se spinti all'eccesso, sfociano nel regime della simulazione e della virtualità e quindi nella negazione ontologica del cinema.” Lo spettatore di oggi, insomma, può trovare in Boyhood il giusto film per guardare con le dita (e qui tralascio l'interessante vedere nel porno un cinema di contatto ed immedesimazione in seno alla masturbazione sui seni). Boyhood centra il punto di contatto con lo spettatore giacché lo spettatore è testimone di esistenze quanto mai concrete. Quanto mai tattili. Perché? Perché il tempo di Boyhood è anche il nostro tempo e - da un punto di vista felicemente cinematografico - Boyhood è un film che parla di sé stesso. A tal riguardo permettimi o anche no un'altra spocchiosa ma necessaria citazione, il metaracconto osservato da Casetti e di Chio in Analisi del film: “Proprio il cinema moderno vede uscire allo scoperto anche un altro tipo di racconto. (...) Quello che è in gioco in questa forma trasversale (...) è più essenzialmente il raccontare il proprio raccontare, (...) il manifestare il testo in quanto tale”. Boyhood è un film che racconta il proprio raccontare. Lo fa palesemente e illusoriamente in modo lento, in modo noioso. La vita alla fine della fiera, credo, possa definirsi illusoriamente lenta (già ora è prima ma pur sempre ancora) nonché, salvo rari e fortunati casi, noiosa e a tratti disgraziata o entrambe le cose visto che noia si può anche scrivere enueg, cioè il pesantissimo taedium vitae. Ma in buona sostanza tutto il resto è noia e in fin dei conti è la malinconoia che uccide a questa età, è il cuore che si scuoia cercando quel che ha già. E il cielo cade giù con la sua tenda buia e non esisti più nella malinconoia.
Il segreto può forse davvero (o davvero forse) essere quello di azzeccare i tempi, di avere pazienza; di dire ai nostri simili di attendere, diventeremo come si vuol che noi diventiamo (grazie al passare del tempo). Forse davvero l'attimo è una costante, nel senso che l'attimo è il tutto nel suo divenire, l'attimo è sempre innanzi o attorno a noi. Seppur in realtà io non sia molto convinto di questo vorrei convincermene con maggior convinzione. Per essere più allegro. Penso o penso di pensare che molte cose vadano prese per i capelli. Non il tutto come attimo ma l'attimo nel tutto. In fondo, diciamocelo, molto del tutto lo butteremo volentieri nel cesso ove lo scarico del tempo (si veda l'inizio di queste mie strontaties) rumina il fare fecale. All'attimo di cogliere Noi non penso che importi tanto. A tal proposito il ciuffo di capelli che ad un certo punto del film Mason ci schiaffeggia innanzi cagiona un pilifero indizio. Mason come Kairos. Ossia una delle tante forme allegoriche del tempo. Come noto,  Kairos oltre a vari orpelli, accoglie su di sé un bel ciuffo di capelli. Un ciuffo di capelli che è tale per facilitarne la presa da parte di chi vuol cogliere l'occasione. L'adesso non è un ora perpetuo, l'adesso è il sapere acciuffare il ciuffo peloso di Kairos; saperlo riconoscere, saperlo prendere, saperlo pettinare o spettinare. Il capolavoro (termine abusato) sarebbe questo, pigare dalla cesta l'acino giusto e non tutto il grappolo. Mentre, per me, il non capolavoro è Boyhood, il suo riflettere sul tempo che passa riassume quel tempo che passa tra un mio limarmi le unghie e un mio masturbarmi pensando che di goder non mi interessa. Alla fine della fiera io pensavo soltanto che Ellar Coltrane (nella sua espressività assente) si tramutava via via nel proseguir del film in Josh Brolin. Quasi tre ore per rintracciare un morphing? Più costruttivo sarebbe stato per me legger Fusaro rispondere alla Nappi e pensare che sì, vorrei seriamente veder lui squirtato da lei anche se, a ben pensarci, sarebbe un dono ontologico fin troppo generoso. Per quanto riguarda il tempo che passa magari sarebbe più incisivo pipparsi la saga letteraria di Harry Potter, veder Hermione Granger farsi Emma Watson. Ancor meglio, sarebbe cosa simpatica rivedersi per Natale la trilogia Before di Linklater o immaginarsi il progetto decaduto di von Trier, Dimension o lasciar passare il tempo nel riassunto temporale dei Cure e della loro Friday I'm In Love. Ma la cosa più certa di tutte è che se ti sei messa/o a leggere questo post hai davvero perso moltissimo tempo. Perdonami.


* L'alieno e il pipistrello

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