BIRDMAN di Alejandro G. Iñárritu (2014) Un notevole uccello
Siamo in un aeroporto o è il mio uccello che sta decollando? Nulla di tutto questo, o meglio, qui a prendere il volo sono una moltitudine di uccelli. L'uccello di Iñárritu, che felice volteggia tra i corridoi del Broadway St. James Theatre, l'uccello di Norton che fatica a volte a stare su ma che quando sta su sta su alla grande e l'uccello di Michael Keaton che si libera nell'aria nonostante sia tutto finzione. Ma prima di deragliare con immagini facili quali uccelli e passere, il senso di tutto questo mio vacillato ingresso è che se di uccelli si parla, si parla ovviamente di quelli della mente. Per quanto possano esistere gli uccelli della mente, ovviamente. Or dunque e ben donde non di un volteggiar autoreferenziale ma di un film che è decisamente più di quello che già è: ossia un film decisamente riuscito nonché un film decisamente decisamente. Di cosa parliamo quando parliamo di Birdman? Be’, innanzitutto di Iñárritu che qui dimostra di essere un abile e sapiente regista ma anche e soprattutto un regista che ad un certo punto decide di reinventarsi arrivando a realizzare quello che secondo me è il suo film migliore. E da qui l'elemento più palese, il montaggio, l'illusorio long take. Per chi conosce il cinema del regista messicano, il suo metter mano al montaggio è cosa nota. Le sue sono pellicole fortemente di montaggio e or dunque nel vedere come in Birdman Iñárritu si muove, sarebbe errato ed ingiusto dire che si è montato la testa. Lo dice lui stesso, "Se del mio film rimarrà l'opinione di una bravata tecnica allora il film sarà stato un fallimento". L'intento di Alejandro non è quello di voler sbalordire lo spettatore con uno spettacolo fine a sé stesso. Il suo svolazzare non vuol essere virtuoso, marcatamente o pacchianamente virtuoso. Il suo intento è quello di costruire un film liberandosi (illusoriamente) dei solidi e soliti trucchi del mestiere in post-produzione; aderire con maggior aderenza alla storia. Un fluire di pensieri e parole, lo scorrere della mente ad uccello del protagonista. Non vi ho visto or dunque un eccesso di ambizione ma una ambizione controllata, giustificata, appiccata come una Big Babol alla messa in scena e agli attori. Il non-piano sequenza di Birdman è la punteggiatura più azzeccata e figa che può esserci per farci entrare nei corridoi della mente di Birdman e dei suoi simpatici e problematici amici. E gli stretti cunicoli del St. James Theatre sono il luogo ideale del regno intermedio che qui or ora scrivo (in una calda biblioteca con mia moglie accanto che legge non quello che scrivo ma ben altre corpose scritture. Tra l'altro lei sì che non sta a perdere tempo come me. Cioè, che cazzo me ne frega di scrivere una recensione quando potrei fare qualcosa per il mio futuro? Ed inoltre, sono strettamente necessarie queste note biografiche topologiche? No).
Il regno intermedio di Riggan Thomson. Or bene, dico ciò in evidente ed imbarazzante connessione a quello che il filosofo Walter Benjamin diceva di Kafka: l'essere fallimentare di Kafka costituisce la cifra del suo successo.* L'ostinata ostinazione del non volere accettare lo stato delle cose e quindi il muoversi di corridoio in corridoio, di incrocio in incrocio. Mandare di volta in volta in rovina l'esistente non per masochismo ma per tastare la possibilità di una via oltre le macerie. Il gusto delle macerie, il sapore delle macerie e l'idea utopistica di un corridoio tra esse. Riggan Thomson pensa di avere ancora delle carte in mano, pensa di poter tornare ad essere la stella di un tempo (quando interpretava l'Uomo Uccello). Può farlo, la cosa gli appare sulla carta possibile ma sul palcoscenico un po' meno. Essendo un stella del cinema sul viale del tramonto deve adeguarsi a dei vincoli, deve scegliere il non poter liberamente scegliere. Cosa sto dicendo? Non lo so bene. Da una parte non ho voglia di scrivere questa inutile recensione e dall'altra vorrei comunque dire la mia. Io stesso ho dei vincoli quindi. Il sentire, non messianicamente, di dover scrivere qualcosa sul film e il non aver voglia di farlo. Come direbbe un tizio credo norvegese di nome Jon Elster**, la creatività è?
La creatività è la capacità di riuscire a massimizzare il valore estetico sotto vincoli. Qui, per massimo si intente non il produrre la cosa più cazzutamente figa che puoi produrre ma bensì il creare un qualcosa di completo, non propriamente in non plus ultra. Il trovare l'equilibrio, risiede in questo il massimo. Non un bello in assoluto ma un bello diverso, un bello che funziona, che coinvolge, che regge, che plana come un uccello. Arrivare alla giusta soluzione, al punto in cui la pasta va bene e non vi né troppo né poco sale. L'arte, quella che riesce ad esserlo, è un felice concentrato di non eccessi. La pasta di Alejandro è cotta al punto giusto e salta al giusto punto e possiede in ultimo un valore difficilmente trascurabile: l'aspetto emozionale. Sì, è sempre bello emozionarsi con tanti bei cuoricini rimbalzini e scoppiettanti e fare ciao ciao con la manina felice. Boyhood (tanto per fare un esempio a caso) può e magari possiede valori percettivi e cognitivi (come direbbe il tizio di cui sopra, Jon Elster il norvegese) ma pecca - a mio modo di vedere il mondo - di una colpevole carenza di valore emozionale. E non parlo degli orsetti del cuore. L'idea di un film diluito in anni è certo suggestiva e meritevole di meriti ma se in dodici anni di riprese non mi regali un piccolo brivido in nessuna delle quasi tre ore di film io mi deprimo e basta. Il massimizzare di Richard Linklater inciampa. In Boyhood vi è un eccesso di non necessario.
In Birdman, invece tutto quello che vediamo è necessario e ricopre il giusto spazio temporale nonché ricopre un qualcosa che ci assomiglia assai; il nostro non stare propriamente bene nel mondo o il nostro inseguire un qualcosa che non siamo più o il credere che tanto alla fine le cose andranno certamente bene. Uno spazio temporale che è un fantastico ed illusorio piano sequenza. Il piano sequenza del pian piano arriverò a capire come far andare meglio la mia vita. Or bene, ci è subito chiaro che il piano sequenza di Birdman si prolunga in un tempo che è dicotomia. Una dualità di tempo allargato, concentrato in un unico occhio temporale. Un occhio che eccede, una eccedenza non tanto distante da quella del Sokurov di Arca Russa. Ma non voglio scrivere ora la solita incomprensibile recensione. Mi sento fin troppo scazzato. Direi quasi al margine, e quindi vorrei anche io cercare di organizzare uno spettacolo a Broadway su un racconto di Carver. Che so, Riuscivo a vedere ogni più piccola cosa o Tanta acqua così vicina a casa o Sacchetti. Ma poi cosa è un margine? Un margine di tempo? Per essere un tizio che scrive su un blog ci vuole molto tempo. Io non ho tutto questo tempo, nel senso che non ho voglia di avere del tempo. Per essere un tizio che scrive sui blog devi esere aggiornato, seguire le cose. Vedi un film che ti piace e subito lì a scriverne, a scriverne in modo un minimo decente. Per dire, Locke mi è piaciuto parecchio. Ne ho scritto qualcosa? No. Io, nel mio piccolo, nel mio nauseabondo piccolo mi sento ancora più piccolo. Non sono neanche in grado di aggiornare le mie visualizzazioni. Non sono neanche in grado di scrivere recensioni su film che non mi sono piaciuti. Non sono in grado di scrivere in generale. Forse ho qualcosa nel cervello. Mi ritrovo in un quadro senza cornice o in una cornice senza quadro, mi ritrovo in un delirio di immobilità e di patetico melodrammatico vittimismo.
Dico, Eugenio Montale a parte, intorno a marzo un giovane poeta con i cappelli tutti stropicciati e con la giacca sbiadita ha udito un grido roco. Un grido roco che proveniva da fuori. Tuttavia a lui quel grido sembrò un suono della sua mente. Anche a me succede a volte, nella fase ipnagogica o quando esagero con lo Xanax. Ma il giovane poeta sapeva di averlo sentito davvero quel grido, un grido di uccello. Il sole si levava alle sei, non più un mero arrotolarsi sulla neve ma una vera e propria entrata in scena, un conclamare. Il grido era il Do di un corista uscito dal coro che anticipa il coro. Il grido auriga. Un grido, un avvio, un iniziare avvolto nei suoi corali cerchi, un grido che era come una conoscenza del reale. Non idea sulla cosa, ma la cosa stessa. Il suono, magari sguaiato dell'uccello, è il suo - e quindi - il mio grido. Un modo come un altro per dire che ciò che è è ciò che è. Un critico ne può scrivere ovviamente quello che vuole, può interpretare, può esaltare o distruggere. Ma alla base, alla ciccia, una certezza apparentemente banale è che quel che è e ciò che è. E lo sa anche Riggan Thomson che innanzi allo specchio del suo camerino tiene un promemoria: Not ideas about the thing but the thing itself. Un modo per riuscire a reggere una critica non particolarmente entusiasta, traendo ispirazione da una poesia di Wallace Stevens. La riuscita di un qualcosa dovrebbe non pensare al dopo qualcosa ma al durante qualcosa.
Non a caso Iñárritu, mostrando il funambolo Philippe Petit in bilico tra le torri gemelle ha detto ai suoi attori che è quello il film che stavano girando. Se fossero caduti avrebbero fallito. Ma alla fine né Iñárritu né il suo cast (un cast ove nessuno sbaglia una virgola) hanno fallito. Anzi. Loro sono arrivati dall'altra parte del cavo. Loro hanno realizzato un film che mi viene da definire meraviglioso. Un film che parla di sé (ed ha il pregio di poterlo fare) e che parla di crisi. La crisi artistica, la crisi di esistenze, la crisi di rapporti, la crisi di persone che incontrano altre persone in crisi. E non c'è nessun manierismo in questo, è tutto amabilmente sincero. Così sincero che gli attori si prendono gioco di sé stessi, Edward Norton fa la parodia di sé stesso (sé stesso attore difficile) e dove anche il linguaggio cinematografico fa la parodia di sé, andando a svelare nonché a rompere la quarta parete ove la partitura di Antonio Sanchez diventa un Antonio Sanchez stesso, seppur su di un corpo non di Antonio Sanchez ma in quello del batterista Nate Smith. Ma, a rigor di informazioni, Antonio Sanchez è il primo protagonista del film: sua la prima voce già all'interno del logo dei produttori.
Insomma Birdman. Birdman, alla base mi ha ricordato il notevole Synecdoche, New York ma è anche riuscito a ricordarmi il Birdman di Iñárritu. Ossia, ancora una e benvoluta volta, l'amore e la passione per il cinema. Birdman è cinema, è passione per il cinema, è intelligenza cinefila. Birdman è tante belle cose nonché è Michael Keaton. Un Michael Keaton che da subito gli vuoi tanto, tanto bene. E non è vero, per me non è vero, che al messicano Iñárritu piaccia più sé stesso dei personaggi dei suoi film o le storie che raccontano. Non è vero che ha girato con un virtuosismo tale da togliere spazio e respiro al contenuto. Anzi. Il regista messicano Iñárritu ha donato spazi, li ha conditi con una regia impeccabile (impreziosita dalla fotografia di Emmanuel Lubezki, che tanto ha dato al Gravity di Cuarón) e non ha tolto spazi. Cristo, Birdman è tutto tranne che togliere spazi. Birdman è una meravigliosa esaltazione degli spazi, degli attori, degli uccelli, della batteria, delle terrazze, dei critici cinematografici, delle mutande, delle parrucche, dei supereroi, degli sputi, del sangue, del cinema. Il cinema che fa bene al cinema e a quella cosa che è la creatività.
*Ma in relazione a ciò si veda la postilla su Il carattere distruttivo di Walter Benjamin dal libro Miti e figure del moderno di Franco Rella (collocazione in bliblioteca: 128 REL)
Commenti
Posta un commento