BARKING DOGS NEVER BITE di Bong Joon-ho (2000) Il cinofilo cinefilo

All'inizio del film viene specificato che le performance animalesche sono state girate in presenza di addestratori e veterinari e già questo mi aveva lasciato un po' così, giacché io non potrei mai guardare per dire un film come Gummo e visto che ho detestato L'Isola di Kim Ki-duk per il fatto che si affettassero pesci vivi e si schiaffeggiassero cani (Kim non ha un buon rapporto con le creature d'acqua, si veda il pessimo Pietà). Ma alla fine della fiera in Barking Dogs Never Bite si capisce - da spettatore - che ai simpatici cani non è successo nulla. Nada de nada. Chiarito ciò c'è (ciò-c'è) il fatto che questo è il primo lungometraggio di quel gran simpaticone di Bong Joon-ho, il simpatico uomo che ha diretto Memories of Murder e The Host (mica pizza e fichi) nonché regista del corto Shaking Tokyo e di Mother. Or dunque e direi anche ben donde: can che abbaia non morde? Sì, ma il suo abbaiare può irritare. E visto che tra un bel po’ di mesi saremo ad agosto, ossia il mese più orrendo dell'anno e visto che l'uomo oltre a dimenticare i figli in auto è portato a far uscire i cani dall'auto per abbandonarli al loro destino, quale film più calzante di questo? Ecco quindi Yoon-ju (Sung-jae Lee), frustrato ricercatore universitario che un bel dì ode l'abbaiare di un cane nel suo alienante condominio. La sua vita è abbastanza penosa; sa che per avere una cattedra bisogna corrompere, sa di essere un marito fallimentare (utile solo nelle vesti di zerbino o come schiaccia noci), sa che prima o poi morirà e che la vita che ci sta in mezzo è come un pendolo che oscilla tra dolore e noia. Visto ciò, l'abbaiare di un cane non può che alimentare la sua sete di vendetta sul mondo. Trovato il piccolo molestatore decide di farlo fuori e qui c'è l'unica sequenza del film che giustifica la didascalia iniziale ma vedendo la scena, le dinamiche e i movimenti della macchina da presa si evince che il trucco c'è ma non si vede. Il cane rischia la vita e durante questi tentativi omicidi il docente mancato Yoon-ju si troverà ad avere a che fare con individui malati quanto lui. Ma per sua e nostra fortuna nell'oscurità generale una luce minuta nonché deliziosa si creerà il suo spazio, Hyun-nam Park (o Park Hyun-nam, giacché in quel dell'Asia si parte dal cognome) interpretata da una donna con la quale vorrei fare colazione: Bae Doo-Na.
Si potrebbe dire che il film è una commedia ma pervasa dall'inquietudine. L'iniquità dei molti personaggi, la spontanea malvagità caratterizzano la pellicola nel midollo. Un microcosmo incapace di provare empatia. Un sociale sottratto, chiuso negli appartamenti e nei sotterranei, meccanizzato dal lavoro; l'unico impulso è il soddisfacimento di bisogni primari ed egoistici. Imbrogliare, prendersela con gli animali, trombare. Il tono leggero e l'accompagnamento jazz di Jo Sung-woo aiutano a sopportare il senso di soffocamento dato da questa piega dell'umano e al contempo danno il senso di un assurdo generale, una assurdità divoratrice e per niente confortante. Per alimentare, sfogare, colmare e direi anche assecondare il proprio antropocentrismo la preda più facile è quella più indifesa. Un corpo animale che diviene oggetto, struttura di carne da sopraffare. E i buoni? Sono pochi e sono silenziosi i personaggi che danno speranza per un mondo più accettabile, o meglio, non sono pochi ma sono semplicemente silenziosi e appartati. La giovane e graziosa Hyun-nam invece, in controtendenza, cerca - anche a rischio di perdere il lavoro - di prestare aiuto nonché di respingere ciò che ritiene ingiusto. Hyun-nam è una sorta di eroina e il suo vestito giallo si tramuta facilmente in costume giallo da supereroe. Lei possiede quello che il filosofo americano Dewey chiama una “intelligente riforma del mondo”, un seguire un io (oltremodo saggio nel suo anticonformismo) che va a cozzare nonché far incazzare le abitudini della società nella quale vive.
Cozze a parte, abbiamo una società concentrata in (poco complessi) complessi abitativi, degli orridi respingenti contenitori di disinteresse. Scatole di raggruppamento umano per nulla affascinanti sia all'esterno sia all'interno sia nel reparto caldaie e sia sui tetti. Storie di fantasmi, storie di bizzarri incidenti, metraggi di carta igienica, nuove insegne luminose. È questo il vivere la quotidianità. Perché quindi, se già presi dal niente, far caso alle foto di cani scomparsi? Infatti, perlopiù, le si ignora. Forse perché il volto di un cane è il volto di un qualsiasi cane. Un barboncino è pressoché identico ad un altro barboncino. Un gatto Scottish Fold che vive con una famiglia newyorchese è pressoché identico ad un gatto Scottish Fold che vive con una famiglia giapponese. Identici e ovviamente differenti e riconoscibili solo per i rispettivi proprietari. A patto, appunto, di vederli e toccarli dal vivo e non in foto. La diversità di animali che si somigliamo è di natura identitaria, una identità che è un modo d'essere come direbbe Abelardo (che non è il mio nuovo coinquilino ma un filosofo medievale, quello innamorato di Eloisa per capirci). Un modo d'essere, giacché le teorie si controllano mediante i fatti. Toccare per sapere. Un cane circoscritto in una foto con su scritto SMARRITO è invece una muta presenza. Un cane in una foto è allo stesso tempo una moltitudine di cani della sua razza. Come le persone che arrivano coi barconi: costituiscono una massa, la loro identità si perde ed è più facile non vederli ed è più facile vederli come una minaccia. Sto cagando fuori? Sì, può essere, eppure la lettiera e qui accanto. Ricordi il motto di Husserl che ci ripetevano sempre alle medie? Zu den Sachen selbst! L'invito a tornare al succo dei succhi, alla base delle basi, al mondo osservato dal palcoscenico della coscienza. Be’, con le foto dei cani smarriti questo non potrebbe funzionare, la mia sola ed unica coscienza non funzionerebbe. Per quanto possa stare impiantato a guardare, quella foto (osservata nel filtro del mio me coscienziale) non mi dirà nulla del cane. Troppo anonimo. Troppo uguale ad altri. Potrebbe essere un qualsiasi altro cane. Bisognerebbe esser in grado di ascoltare, ascoltare e vivere l'animale e registrarne l'identità. Non sarebbe sufficiente ma aiuterebbe. Ma tutto questo non funziona nella realtà, al massimo nel fantastico mondo degli orsetti colorati. Senza un orecchio che ascolti l'Essere del mondo, la coscienza rimane un mero angolo appartato in un angolo. Rimane, per l'appunto, il soddisfare il proprio Essere nel mondo. Rimane l'utilizzare il mondo, il cibarsene.

È facile, in questa logica malata, vedere in un cane il volto di un qualsiasi altro cane. Senza identità; soltanto una cosa della quale servirsi. Carne ammassata. Un nulla o poco più. Sì, sto delirando ma credo dipenda in parte dalle parole di Massimo Gramellini. La sofferenza è un bagaglio a mano che ti porti dappertutto. Temere le panciate della vita. Consegnarsi alle montagne russe delle emozioni. Esercitare il muscolo atrofizzato della fantasia. Appiccicarsi sul cuore una patente di inadeguatezza. Il mestiere di vivere. L'antifurto dentro di noi. La minchia. Tralasciando queste mie allucinanti derive espresse qui malissimo e dovute sicuramente al fatto che mi sono appiccicato sul cuore una patente di inadeguatezza e quindi chissà - di rimando - cosa ho appiccicato sul culo, resta solo da dire che Bong Joon-ho è un regista raffinato e che lo si nota già da questo suo primo film. Dove per raffinato intendo che sa cogliere il punto narrativo di differenti argomentazioni. Per farmi capire, per quanto possibile, basti vedere la sequenza del racconto su Boiler Kim e quella sul docente ubriaco. Due storie diverse, due stili diversi e la medesima bravura nel ritrarle. Quando Bong Joon-ho prende mano alla macchina da presa si può davvero dire, alla Boiler Kim, adesso gira. Nel senso che adesso funziona, va dritto per dritto nella sua ispirata strada. E anche io dovrei fare lo stesso e invece di chiudere così repentinamente con queste frasette a cazzo potevo semplicemente dire che questo Barking dogs never bite non è sicuramente tra i suoi film più riusciti ma è sempre meglio di tante cose brutte e maleodoranti che svolazzano in estate, tipo questa mia orrenda non-recensione. Se fossi un albero, qualche cane mi avrebbe certamente già pisciato addosso. Ma anche se non fossi un albero. 

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