ARCA RUSSA di Aleksandr Sokurov (2002) Ci si becca all'Ermitage

Saskia van Uylenburgh oltre che moglie fu anche modella  di Rembrandt. Essere parenti del pittore equivaleva a farsi inserire nelle più svariate situazioni pittoriche e la sfortunata Saskia (destinata a perire per malattia) ebbe or dunque e ben donde la fortuna di esser immortalata dall'arte. Oltre ai sofferti e realistici ritratti di lei malata un dipinto ai più noto è quello che la vede nelle vesti di Danae, la madre di Perseo. È curioso e anche figo pensare a come l'arte pieghi il tempo. A come ne faccia sentire un peso tutto particolare. Il tempo nell'arte pittorica assume dei tratti invisibili e palpabili. Se ne fa esperienza quando si entra in un museo. I musei sono luoghi meravigliosi, lo pensi anche tu? La loro commistione tra il delicato e il possente. Fuori dal museo le bruttezze più ignobili e nauseabonde, dentro il museo il passo morbido e composto. A meno di non essere dei beoti, camminare lungo le sale di un museo è passeggiar lieto. Sostare davanti ad un quadro, al tuo quadro, è una esperienza ipnotica. Osservare la tela, registrare le increspature del pennello è un viaggiare nel tempo. Davanti a me c'è un Michelangelo, un Filippo Lippi, un Tiziano e allo stesso tempo io sono nel luogo dell'artista che dipinge. Sono dove era lui quando dipingeva: davanti alla tela. Condividiamo uno spazio separati dal Tempo ma uniti dall'opera. Bisogna sempre riposarsi nei musei ad un certo punto. La mente lo richiede, bisogna metabolizzare. Ci vuole quindi molto tempo per visitare un museo. Per vivere quella miracolosa sospensione assieme a tutti gli altri visitatori. Come alieni in un mondo speciale. Ci vuole tempo per gestire quel tempo, quegli strati di tempo, quelle assenze. Assenze? Sì, anche tu che leggi or ora non puoi mai essere in un ora davvero indicizzabile, acchiappabile. L'io si perde sempre da qualche parte, nel prima non ancora toccato e nel dopo già passato. Purtroppo o (come direbbe Sartre) per fortuna non ci è dato esserci nel pieno dell'essere. Questa assenza ci garantisce la ricerca. Ecco perché - se ancora giovane lettore mi stai seguendo - nell'uomo che nel film di Sokurov non vediamo (ma che vediamo in continuazione, nel suo vedere per noi) risiede una forma illuminata di presenzialità. Se è vero che c'è un po' di Hegel in ognuno di noi (come mi diceva sempre Alice, la mia fidanzatina delle medie) è quanto mai vero che l'uomo che non vediamo è un sunto perfetto della concezione che lo Hegel ha del tempo: la convivenza di assenza e presenza. 
Il protagonista di Arca russa è un non protagonista, assente ma presente, è entrambe le cose. Non c'è ma c'è, e c'è in un modo pregnante giacché noi vediamo coi suoi occhi e lo ascoltiamo (con la voce dello stesso Sokurov). L'uomo (non)protagonista è in un punto tutto particolare ma ancor di più lo sono (in un luogo particolare) i visitatori dell'Ermitage di San Pietroburgo. Loro vivono una forma di presenzialità che alla fine della fiera è ancor più assente. Quasi come i fantasmi dell'Overlook Hotel dello Shining di Kubrick. La loro presenza è tragica. Loro non sono da nessuna parte, a dispetto dei due protagonisti del film. Le persone che passeggiano nell''Ermitage (e nel Palazzo d'Inverno) sono una linea che non può essere scritta ma che comunque c'è, struttura il tutto. Una linea-lama, figurativamente parlando, come quella che accompagna i titoli di apertura. La mia coinquilina direbbe che quella linea non è altro che la différance di Derrida, il filosofo francese che spesso cito e ricito a sproposito e a casaccio in questo blog. Io invece andrei più cauto anche se, so già, mi ritroverò a darle ragione e a offrirle come pegno una cassa di birra. Or bene, già pregustando litri di birra in me e in lei e rivolgendomi direttamente a te, giovane lettore-lettrice ti e mi chiedo: l'uomo che non vediamo c'è? C'è l'uomo che non vediamo? Bè, sì. Ma allo stesso tempo noi non lo vediamo e non lo vedono gli altri eccetto l'ex diplomatico ottocentesco (il marchese nonché viaggiatore Astolphe de Custine). Quindi c'è e non c'è allo stesso tempo. Inoltre, le persone che incontriamo, tutte quelle belle dame e quei soldati del XVIII secolo... Loro ci sono. Ma non sono nel loro tempo e di questo pare ne abbiano segreta e drammatica consapevolezza. È come se si percepissero attori, o meglio, fantasmi di un mondo svanito. E quindi sono in un luogo non puramente temporale (si veda ad esempio la bellissima sequenza del protagonista che cerca di inseguire Caterina II). Una forma distorta di un dove, un dove ove (ove dove) si incontrano persino nostri contemporanei: i visitatori del museo. Ne converrai giovane e caro/a lettore-lettrice che tutti quei personaggi risiedono in una strana linea (forse la différance suggeritami dalla coinquilina). E ora? E ora, dato questo chiarimento o comunque questo apparecchiar scomposto di tavola, ne risulterà oltremodo significativo e pregnante la metodologia adottata da Sokurov: un piano sequenza fenomenale. Per raccontare il tempo una tecnica sul tempo. Lo scorrere registrato secondo dopo secondo, senza stacchi.

Sokurov ha girato un film con un unico piano sequenza. Poco meno di un'ora e mezza di vero e proprio prodigio. Un'operazione il cui fascino rischia (paradossalmente) di distrarre dal film stesso. Lo spazio dell'Ermitage e il suo narrare il tempo attraverso un singolo tempo di ripresa. Una camminata in soggettiva, di sala in sala. Balzando da un'epoca all'altra, vivendo il viluppo di una storia, incrociando i più disparati personaggi. Da quelli spensierati a quelli enigmatici a quelli inquieti (ad un certo punto ci imbattiamo anche in una figura che spia i protagonisti). Il tutto sincronizzato alla perfezione. Quando sono arrivato alla fine del film ho pensato "È andata! È filato tutto liscio!", questo perché è impossibile non vivere inizialmente il film come una performance. Se il montaggio - come insegna la teoria cinematografica - deve essere invisibile, trovandoci a vivere un film senza montaggio ci rendiamo conto che l'assenza di montaggio, il piano sequenza, rischia ancora di più il palesarsi dell'artificio. Non si può essere invisibili all'interno di un'unica visibilità. Ma visibilità e invisibilità e mie frasette ad effetto a parte è quella speciale risoluzione temporale ad aderire alla speciale narrazione. Grazie al digitale e grazie all'operatore Tilman Büttner che prima di accollarsi i 21 chili di attrezzatura si è dovuto allenare per un paio di mesi in palestra (per documentarsi sulla realizzazione del film rimando al documentario di Svetlana Proskurina dal titolo Ostrov. Aleksandr Sokurov). Come la donna che cela il suo segreto omaggiando la Danae di Rembrandt e come l'altra donna che conosce e sa vedere le opere di Rubens e van Dyck, di Arca russa si deve fare esperienza. Un'esperienza, per il sottoscritto, affascinante. Conquistato dall'Ermitage, dai bellissimi costumi, dall'occhio dell'autore, dal parlare del tempo esercitando il tempo. Il tempo del cinema e il tempo della storia nonché il nostro contemporaneo seguire quel tempo. Nell'uscire dal museo, seguendo quella colorata folla, ci si vorrebbe arrestare e ricominciare da capo o darsi appuntamento al prossimo fine settimana. Cosa non tanto improbabile data la circolarità che par esser parte di quell'arca. Ci porterei anche la mia coinquilina, per chiarire finalmente la questione sulla linea della différance. Facciamo un salto nella sala dei maestri fiamminghi, facciamoci raccontare van Dyck, facciamoci coinvolgere dalla vitalità della giovane Anastasija e delle sue sorelle scorrazzanti e poi, passo dopo passo, conquistiamoci un posto in prima fila e prendiamo parte al ballo.

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