A PROPOSITO DI DAVIS di Joel ed Ethan Coen (2013) Sfiorato dalla luce
Molto tempo fa, in più giovane e ilare età, mi son ritrovato a dover decidere tra l'acquistare un biglietto per un concerto di Bob Dylan e l'acquistare un albo di fumetti della serie Alien. Era primavera, una splendida giornata, tutto intorno una tonalità rosso-arancio. Il tramonto era imminente. Si stava davvero bene e quindi ci ho messo un po' per prendere la decisione giusta. Era una bella serata per un concerto ed inoltre non avevo mai visto Bob Dylan dal vivo e pensavo che era cosa che si doveva fare. Pur non conoscendo quasi nulla della sua musica e dei suoi testi sapevo che se Dylan viene nella tua cittadina non lo si può perdere. Quindi alla fine mi sono alzato dal marciapiede ove mi ero seduto a riflettere e, non so precisamente perché, sono entrato in edicola ad acquistare l'albo di fumetti di Alien. Una decisione quantomeno discutibile ma all'epoca ero affascinato da quell'alieno; rimanevo lunghi e sospirosi momenti nelle vetrine a contemplare gli action figures del mostriciattolo creato da Giger. Ho scelto ciò che in quel momento mi piaceva di più. Da dire che ad oggi, da vecchio, storto, pelato e obeso quale sono, Alien mi piace ancora e continuo ad ignorare il cantautore statunitense. Nonostante io e il folk siamo distanti (eppure non dovremmo, giacché un minimo di fascinazione letteraria dovrebbe esserci) vuol essere ben donde stentoreo il mio apprezzamento per questa nuova pellicola dei Coen. Ove per apprezzamento intendo dire che per me questo è un film che gode di una speciale bellezza. Non tutto arriva subito, alla fine magari si può uscire un pochetto interdetti ma poi le immagini riaffiorano ed assumono una forma-sostanza coriacea e significativa.
Llewyn Davis, musicista folk, dopo aver smarrito il suo partner musicale si muove qua e là tra New York e Chicago, in cerca di una possibilità come solista. Spiantato ed inascoltato (perlomeno da chi potrebbe valorizzarlo), in questo suo muoversi sempre sulla soglia del fallimento si imbatte anche in un gatto. Gatto che mi ha fatto pensare parecchio, tra l'altro. Non so tu giovane lettrice e lettore ma gatto a parte io mi son rivisto parecchio in questo Llewyn Davis. E non tanto per via della barba. Davis è un uomo che rientra in una categoria particolare, quella dei perdenti. Qualità categoriale non estranea, anzi, al cinema dei simpatici fratelli Coen. Per quanto uno possa sforzarsi di lottare contro il suo essere un perdente alla fine arriva un momento in cui inizia a pensare che forse quella è la categoria esistenziale che più gli appartiene e che invece di contrastarla dovrebbe accettarla senza pietismi di sorta. Tollerarla, magari non propriamente alimentarla, ma tollerarla. Ci sono più perdenti al mondo che vincenti, e molto spesso i vincenti vivono nel ricatto del loro essere vincenti e quindi, in qualche modo, pure loro ricadono nel fantastico mondo di noi sfigati. È indubbio che Llewyn Davis sia un perdente, lo comprendiamo subito ascoltandolo e guardandolo cantare nella suggestiva sequenza iniziale, all'interno del fumoso Gaslight Cafe, in quel del Greenwich Village a Manhattan. Sfiorato dalla luce, per il resto in penombra. Ascoltato e applaudito ma non accolto fino in fondo Davis è uno dei tanti talenti che faticano a mettersi a fuoco, per esser davvero visti. Elemento di empatia in più, oltre alla sfiga in sé, questo aver le carte in regola e la frustrazione del constatare che non basta. Bisognerà aspettare Dylan per veder valorizzato nonché monopolizzato (e quindi addio chance) quel mondo. Per adesso, nella New York di inizio anni Sessanta, c'è da camminare con chitarra e gatto a tracolla.
Meno pungenti o grotteschi, i Coen preferiscono addentrarsi in Llewyn Davis con uno sguardo malinconico, poetico e men che mai melodrammatico. Al primo impatto è questo che sorprende piacevolmente, il non premere sul pedale dell'amabile bizzarria che li contraddistingue. Certo non mancano quei momenti alla Coen (se mi si passa l'estremismo) ma più che altro a predominare è un tocco intimo, un tocco... toccante. Il tutto scandito dal pizzicare le dita sulle corde della chitarra e dal fare dell'armonia, delle parole in musica, il lato più rappresentativo di sé. Un sé che si sveglia ogni mattina in una casa diversa, a volte coccolato dalle fusa di un misterioso gatto. Il gatto! “Un adorabile dispositivo narrativo criptico”*. Ora, senza stare qui a fare spoiler (e non lo farò) ho letto varie teorie a proposito del peloso felino. Io ne abbraccio una in particolare ma allo spettatore il piacere delle teorizzazioni. Da dire solo che, dal punto di vista squisitamente di scrittura, il personaggio di Davis rientra nelle analisi di sceneggiatura del Save the Cat! scritto da Blake Snyder. Inserisci il momento salva il gatto è darai allo spettatore un eroe (anti-eroe) per il quale fare il tifo. Da aggiungere poi che per il film sono stati scritturati cinque gatti soriani, due hanno varcato da subito la porta del licenziamento, troppo indisciplinati. La parte quindi l'hanno ottenuta in tre. Colpevolmente non compaiono nei titoli di coda (coda...) e quindi li menziono io. Tigger (l'unica femmina, la più mansueta da portare in giro), Jerry (quello più scatenato e a caccia di cibo) e Daryl (quello più da coccole ma che nonostante questo è stato colui che ha graffiato l'attore Oscar Isaac). Oscar Isaac...
Quando ormai stavano per arrendersi ecco che i Coen incontrano Oscar Isaac, attore sì ma anche musicista (ha un passato punk nei Blinking Underdogs. Chi sono? Non lo so). Ascoltare per credere (menzionando anche l'addetto alle musiche, T Bone Burnett). Un'alchimia meravigliosa, i registi che trovano il loro attore e attore che trova quello che probabilmente è il suo film migliore o almeno il film che inseguiva da un bel po'. Senza dimenticare il resto del cast, da una dolce ed iraconda Carey Mulligan ad un sonnacchioso e possente John Goodman. Tutto bene quindi e il risultato si vede. Inside Llewyn Davis è un apparente leggero ma in realtà profondo film sul fallimento e i suoi crismi. Crismi irrisori, grotteschi, cinici. Destini umani che ballonzolano qua e là, che si circondano di altri perdenti , altri reietti. Gente da marciapiede notturno, da postumi, da sigaretta come momento migliore della giornata. Simpatici e meno simpatici ai quali dare l'arrivederci, giacché sai che li ritroverai ancora lì. Lo sai perché alla fine ti somigliano e tu somigli a loro. Se non ci credi prova ad addentrarti in questo locale di alcol e nicotina e vedi un po' se quel tizio con la chitarra e la sua canzone folk non assomiglia maledettamente a te. E quindi che aggiungere se non che il protagonista è ispirato dalla figura del cantante Dave Van Ronk seppur, come specificano gli stessi Coen, Davis non è Van Ronk. Giustamente candidata agli oscar la fotografia di Bruno Delbonnel, ispirata alla copertina di The Freewheelin di Bob Dylan, e quindi non di Alien. Okay, si è fatta una certa. Stammi bene.
*http://www.vulture.com/2013/12/critics-love-the-inside-llewyn-davis-cat.html
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