10 CLOVERFIELD LANE di Dan Trachtenberg (2016) L’erba del vicino è sempre più in alto
Per tutta una serie di curiosi meccanismi ad incastro mi è capitato di svolazzare oltre le alpi. Star fuori dall'Italia durante il ponte del 25 aprile non poteva che essere circostanza piacevole. Questo perché una cosa che in Italia è ancora da decostruire è l’autocritica, nonché la coscienza di ciò che è stato il passato. La mia idea iniziale era quella di parlarne a d’uopo. Cogliere l’occasione di codesta ricorrenza per commentare in modo pretestuoso qualche film. Ho pensato al classico Roma città aperta di Rossellini ma anche a L'uomo che verrà di Giorgio Diritti. Poi questi miei progetti nati stanchi già di per sé sono andati a fallire con il mio prender il volo. Il tipico viaggio in solitaria, portandosi dietro pochissime cose tipo un orologio da polso ed una minuscola Moleskine da 15 euro che a saperlo prima non li avrei di certo spesi. Ad ogni modo la Moleskine minuscola da 15 euro mi è stata utile. Sia come passatempo (io non possiedo un cellulare) sia come quaderno degli appunti. Mi sono segnato alcuni luoghi della città (Parigi) ove sono stato, quelli che mi hanno regalato bizzosi momenti di quiete. Di quei luoghi ne ho rintracciato tre, tra questi vi è con nonchalance place de la Madeleine, luogo ove alloggio ora che scrivo sulla macilenta costosa agendina. È una bella giornata a Parigi, nel senso che c’è il sole, si vedono le feraci nuvole bianche davanti al tappeto azzurro e tira un oltremodo piacevole favonio, il vento del beato bighellonare. Seduto sulla comoda panchina cittadina ascolto NYC degli Interpol (scelta indubbiamente incoerente) e sorseggio una birra che – ne son quasi certo – non mi porterà a deragliare nello squallore alcolico. Credo sia sufficiente il fatto che quello squallore mi ha portato a muovermi da solo, nella totale sicurezza delle mie passate frequentazioni. Il traffico è costante, qui in particolar però è quasi moderato. Ogni tanto qualche fanciulla passa davanti a me ed io mi chiedo se siano parigine giacché non ne ho mai conosciuta una. Nell'ultima che è transitata mi è parso di aver intercettato uno sguardo. Ma non perché io possegga doti particolari, sono fatto abbastanza male. Credo lei abbia semplicemente registrato il mio bere dall'elegante bottiglia che tenevo in mano. Per i crismi intrecciati dalla mia mente cotale momento mi ha portato a pensare al filosofo americano William James, al moto primario dato alla natura della fede, alla natura del credere. Mi chiedo: James, il tuo terminus ad quem può essere avvicinato all'idea di latenza in Bloch? Ci dovrò pensare con maggior applicazione, magari prima di decidere se entrare nel negozietto alle mie spalle o nella voluminosa chiesa della Madeleine che fa bella figura innanzi a me. Nel mentre 10 Cloverfield Lane e quindi l’esordio alla regia di Dan Trachtenberg.
Perché parlo di 10 Cloverfield Lane? Bè, perché giusto ieri sono entrato al Gaumont Parnasse, multisala che ad occhio e croce si trova esattamente dalla parte opposta ove sono dislocato ora, luoghi separati dalla Senna e da una moltitudine di strade e stradine. Mi sono addentrato al cinema pensando bene di pipparmi un film. Ho pensato ulteriormente bene mostrando alla cassa il mio vecchio tesserino universitario, sia mai il riuscire a scroccare un qualche sconto. Da dire che il mio francese non è proprio fluentissimo. Alle medie me la cavavo molto bene, all'università ho superato a fatica due esami di lingua francese. Ad ogni modo grazie ai miracoli della semantica e al fatto che il giovane cassiere fosse ben disposto, sono riuscito ad entrare godendo di una tariffa più che dimezzata. Il film era proiettato in lingua originale con i sottotitoli in francese, cosa questa che credo sia una felice convenzione da codeste parti. Per un po’ ho pensato di associare le due cose, audio inglese e sottotitoli francesi. Poi, constatando che ci stavo capendo poco, ho deciso di ignorare i sottotitoli. Premettendo che qui non troverai spoiler alcuni ecco cosa io ho inizialmente voluto assorbire del film. 10 Cloverfield Lane non mi ha esaltato ma non mi ha neanche disgustato. Mi ha tenuto compagnia, cosa questa assai tenera, e ciò mi basta per poter dire che è un film che in fin dei conti sta in piedi. Come noto 10 Cloverfield Lane si bea furbescamente dell’essere (o forse non essere) un altro modo di intendere le vicende narrate nel found-footage Cloverfield (pellicola del 2008 costata 25 milioni e che ne ha incassati 170). Sta a te lo scoprire se i due film siano o meno collegati. Quello che si può dire è che 10 Cloverfield Lane non naviga le tempestose acque dei filmati girati a mano correndo velocemente ma quelle più convenzionali del cinema propriamente detto. Un cinema che dalle prime immagini si allaccia – in evidente veste di omaggio – ai classici classici. Ossia? Ossia l’Hitchcock di Psycho e quindi la bella Michelle (Mary Elizabeth Winstead) nell’ottica del “cambio vita e mi complico la vita” della Marion Crane del thriller hitchcockiano per antonomasia. Or bene, il do una svolta alla mia vita (espressione questa da appiccicare letteralmente anche al finale del film) di Michelle va a sbattere contro le pareti del bunker messo su da un John Goodman che chissà se poi è tanto brav’uomo. Perché Michelle si sveglia in un alloggio sotterraneo? Perché il già menzionato Howard e il suo coinquilino Emmet sono convinti che stare chiusi in un buco sia meglio dell’uscire all'aria aperta a raccogliere margherite e a guardare le farfalle? A Michelle e allo spettatore scoprire l’amara verità.
Or bene, dopo il notevole Room (curioso che qui John Gallagher Jr. – cioè Emmet - che aveva lavorato con Brie Larson in Short Term 12 ora si ritrovi prigioniero forzato come la sua collega in Room) e dopo il documentario The Wolfpack, ecco un’altra storia di chiusura, di persone costrette a rimanere asserragliate tra quatto pareti. 10 Cloverfield Lane riesce bene nell'intento di tenere costante l’attenzione dello spettatore. Spettatore che, sgranocchiando furiosamente i popcorn, vive l’attesa del sapere come tutto andrà a finire. Ed è qui che ovviamente alberga il senso ultimo e penultimo del film. Diciamo che è un po’ come lo stare alla fermata della metro ad ascoltare la storia narrata da un tizio sconosciuto solo perché vuoi sapere cosa c’è alla fine. Fortunatamente Dan Trachtenberg non ti lascia completamente sulle spine, ad un certo punto qualcosa la suggerisce. Peccato che poi questo qualcosa incrementi ulteriormente il tuo bagaglio di attese. Attese sulle quali il regista non gioca sadicamente ma anzi fa del gioco un ingrediente ulteriore. Ossia, i cari vecchi giochi di società sono belli ma se questa società è costituita da tre spauriti il gioco si fa inesorabilmente carico di tensione. E quindi Trachtenberg intrattiene, sa come muoversi nei piccoli spazi e sa anche come muoversi nell'ampiezza dello svelamento finale. Ad un certo punto ci si trova così saturi dei piccoli ambienti che si vuole assolutamente ampliare gli spazi come fa lo Steve di Mommy. E anche quando ti capita di avere del più a disposizione ti sembra ancora troppo poco giacché ti ritrovi faccia a faccia con la bella faccia dell’impaurita Michelle. Ma tu vorresti ampliare lo spettro visivo, vorresti spostare oltre la macchina da presa. Cosa questa che non è faccenda orrida, significa che il film funziona. E funzionano tutti e tre i protagonisti.
Mary Elizabeth Winstead è molto fica. L’ho apprezzata assai nel riuscito Smashed ove interpretava una alcolizzata ma anche nel poco riuscito Faults ove interpretava una super e pazzerella combattente per Dio l’onnipotente. Anche in codesto 10 Cloverfield Lane dà prova di saper mantenere un equilibrio tra i momenti di riflessione e quelli tipo corro di là e di qua e spacco i culi a tutti. Su John Gallagher Jr., colui che interpreta Emmet, non saprei proferir molto, diciamo che sa tenere in testa un cappellino. Mentre su John Goodman che dire? Bè, è lui il pezzo forte del film. Il suo Howard non solo si bea di quella possente fisicità ma anche di un inquieto mix tra bonario orso e orso incazzatissimo. Quel tipo di persona con la quale non sai proprio come muoverti, come interagire. Figurarsi il ritrovarselo nel tuo grazioso bunker. Il buon Goodman se la cava quindi alla grande e Mary Elizabeth Winstead riesce a tenergli testa. Alla fine esci dalla sala contento. Non hai visto un film che si arrotola in sé stesso ma un film che sa come srotolare pian piano una piccola ed inquietante vicenda che si fa via via sempre più ampia. E pensare che all'inizio, quando leggevo in francese e ascoltavo in inglese, quasi quasi stavo a fraintendere tutto.
Avevo cioè compreso di un John Goodman che, impelagato con il decreto legislativo 2016 sui mutui, decide di risolvere con l’escamotage del bunker. Escamotage che viene scoperto immediatamente da quei piccoli autori ed editori lì di passaggio. Persone inflazionate dal monopolio della SIAE e che quindi cercano di sfuggire a loro volta a codesta forma di mercato falsato andando ad asserragliarsi pure loro nella tana di John Goodman. Ma il problema è che non tutti i piccoli autori e editori ci stanno a rimanere nascosti in un bunker che ha un solo cesso e allora molti sono costretti a tornare fuori, in attesa che la SIAE assorba i loro diritti o in attesa che chi è nel bunker riesca ad intavolare con successo la questione del come solidificare il mercato dei diritti d’autore. La lotta per l’editoria indipendente viene però messa a dura prova dall’irrequietezza di John Goodman, al quale preme soltanto e unicamente il non divenire un mutuatario insolvente giacché l’apparente sostegno delle nuove norme 2016 a favore del mutuatario non lo convince manco per nulla. Come detto ho poi deciso di lasciar perdere i sottotitoli e mi sono semplicemente visto il film in inglese. E come detto or ora che scrivo mi trovo su una simpatica ed isolata panchina all'interno di un isoletta di cemento triangolare. Penso sia stata una buona idea questa, dico quella di inserire in quest’angolo di place de la Madeleine una mini zona panchina per chi, come me, ha una mini agenda da 15 euro ove scrivere. Alla fine, tra una virgola e l’altra, sono entrato nell'elegante negozietto alle mie spalle. Si chiama Maille e mi ricorda il diabolico negozio del romanzo Cose preziose. Da Maille però non vendono cose preziose ma cose saporite: salse. Ho scoperto che se vuoi una senape alla spina devi entrare qui. Io non volevo nessuna senape e allora sono sgattaiolato nuovamente fuori. A breve dovrò ripartire e questo viaggio-fuga che mi son autofinanziato a suon di fotocopie e rilegature finirà. Grazie quindi cara panchina parigina, mia unica e sfortunata testimone di codesta straziante non-recensione di 10 Cloverfield Lane. Film che in fin dei conti consiglio ai più, pensando a come sia curioso evadere andando a guardarsi un film dove c’è gente che cerca di evadere. Prima di evadere da Parigi e di tornare nel paese dei marò penso or ora che farò un salto a comprare qualcosa di poco dispendioso, una penna, un portachiavi, un porta monete o che so, una t-shirt. Di quelle ovviamente molto da turista, quelle del tipo Paris, je t'aime. Matteò Salvinì, la collecte des déchets.
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